E’ circa un anno e mezzo che evito di occuparmi direttamente del movimento Cinque Stelle perché l’argomento mi suscita grande rabbia e imbarazzo. La rabbia di vedere l’unica forza alternativa alla deriva oligarchica ridotta alla marginalità da scelte di vertice non si sa quanto sbagliate o lucidamente ciniche e l’imbarazzo di assistere alla continua dissipazione di buone idee, di spontanee generosità dei gruppi parlamentari, di pazienza di cittadini elettori di fronte alla totale confusione di una leadership che al momento opportuno non ha voluto o non è stata in grado di assumersi le proprie responsabilità e si è rifugiata nella comoda nicchia della palingenesi, del 100% e più ancora dentro una struttura di comando , un po’ coreana, un po’ circolo Pickwick, che solo dopo molte sconfitte si è decisa a lasciare un po’ di spazio a un piccolo nucleo di organizzazione politica che avrebbe dovuto invece essere messa in piedi subito.
Non voglio dare la colpa a Grillo che è stato travolto da un successo del tutto inaspettato e che non è riuscito a trasformare ciò che in fondo era un gioco, in qualche modo parallelo alla vis critica – erratica ed emotiva – che costituiva la sua cifra di uomo di spettacolo, in azione politica. Sta di fatto che se l’ascesa del movimento è stata un folgorante cammino sostanziatosi in pochi mesi, il declino è stato ancora più rapido, questione di settimane dopo il voto del 2013. Adesso ci si chiede se il M5S resisterà allo sfaldamento, ma in realtà ciò a cui assistiamo adesso non è che l’onda lunga di ciò che è maturato nel dopo elezioni, quando invece di dare una spallata al regime, il movimento fu segregato alla marginalità per volontà della diarchia Grillo – Casaleggio. Dapprima il lungochiomato guru di stanza e quello di piazza rinunciarono ad affrontare Napolitano per imporgli di affidare al movimento un compito esplorativo di governo, cosa ovvia visto che il M5S era divenuto il primo partito. Poi rinunciarono ad un ambizione ben più concreta per una formazione “vergine” e del tutto priva di esperienza: quella di essere l’asse di equilibrio di un futuro governo e nemmeno fecero in modo che una scelta di Bersani in prima battuta e poi di Letta in favore di un’alleanza di fatto con Forza Italia, suonasse come uno schiaffo in faccia all’elettorato. Chiusi nella torre d’avorio consentirono che il Pd facesse la sua mossa a destra spacciandola per necessità. E aprirono la strada la pupillo del cavaliere, ossia a Renzi.
Mi duole dirlo, ma questa rinuncia pregiudiziale a ciò che invece chiedevano i neo elettori del movimento è una delle ragioni del mio imbarazzo: parrebbe una tattica di scuola per sterilizzare prima la piazza e poi il voto. Un parafulmine politico fra i tanti che abbiamo visto all’opera in tutti i continenti dal dopoguerra ad oggi. Non sarà così, spero che non sia così, diamo la colpa all’improvvisazione, all’estemporaneità. Del resto non c’è bisogno di ricorrere a questa ipotesi estrema per giustificare un declino che nasce da un progetto politico e sociale inesistente, volto a chiedere molte singole cose buone come, ad esempio, un ripensamento dell’euro e un salario di cittadinanza, una rinuncia alle grandi opere come motore della corruzione, ma di fatto prive di una visione complessiva di cambiamento di sistema che le rendesse coerenti, credibili e soprattutto attuabili. Ciò che non sono dentro il paradigma liberista. Insomma vascelli senza vele e immersi dentro le acque di un’ossessivo abbordaggio alla casta, di pisciate fuori dal vaso dei guru, di ricorrenti tentazioni xenofobe, di millenarismo di rete. Più che “né destra, né sinistra” qui ci troviamo di fronte a un patchwork di destra e di sinistra spesso occasionale e privo di un vero programma di governo capace di raccordare e di dare un senso all’ottimo lavoro svolto dai parlamentari del M5S, a un minotauro che è assieme una setta e movimento di massa, non a caso votato nel 2013 sia dai delusi di Forza Italia e Lega, sia da quelli del Pd e della cosiddetta sinistra radicale.
Ho paura che ora ci si trovi di fronte a un collasso e all’accelerazione di una diaspora che lasci il Paese senza alcuna opposizione e con l’impressione che una opposizione parlamentare sia ormai impossibile. Ho anche paura che il successo di Salvini nello strappare voti al partito personale dell’amico Silvio, pur continuando a perdere voti in termini assoluti, spinga il movimento a spostarsi verso la destra d’accatto della casta ladrona che vuol far dimenticare il proprio malgoverno, la tratta dei clandestini voluta dai padroncini affiliati al leghismo e affamati di schiavi, il proprio spirito acefalo, lo spirito bottegaio. Che la setta prevalga sul movimento di massa.
Del resto se a quasi 9 milioni di persone non dai una speranza, ma solo un diritto di mugugno, il crollo è inevitabile.