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Vai Saluzzo 17 – parte prima

Creato il 26 ottobre 2011 da Chiaracataldi

Vai Saluzzo 17. Abitavo lì. Si, perché mi ero detta che se mi fossi trasferita a Torino, avrei voluto vivere in centro, e non in periferia, che poi mi toccava prendere il tram. E allora, per vivere in centro a Torino senza avere a disposizione il montepremi di una lotteria, c’era solo un posto: San Salvario.

Via Saluzzo è la parallela di Via Nizza. La famigerata Via Nizza. Lo avevo detto alla mia capa, che avevo trovato finalmente casa, una casetta a ringhiera vicino alla stazione di Porta Nuova. Lei aveva fatto una faccia un po’ schifata e un po’ impaurita, consigliandomi di stare attenta perché “quello sì che è un pustàsc! Pieno di gentaccia, negger, pakistani! Ma i suoi lo sanno?”. Mi dava del ‘lei’. Le volevo dire che per quello che mi pagava, il pustàsc era il massimo che potessi mi permettere…

Del resto lo sapevo. Era semplicemente il quartiere multietnico. “Quando mi hai chiesto come mi trovavo qui, ho tralasciato di dirti che quella stessa notte avevano bruciato una macchina sotto casa mia” mi aveva confessato Marta, qualche mese dopo che mi ero stabilita nella nuova casa. Lei, amica di un’amica, mi dava qualche consiglio su come ambientarmi a Torino, e per l’appunto abitava proprio qualche strada più giù. “Altrimenti poi non saresti venuta, oppure ti saresti agitata…che senso aveva?”.

E comunque non era stato affatto difficile trovare casa. Era solo il secondo giorno che andavo in giro sottotetti ammuffiti, e poi chiamo il sig. Mancini, che mi da appuntamento all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e Via Saluzzo. Impressionata dalle leggende metropolitane, mi guardo intorno circospetta. Poi lo riconosco, col cane, che si guarda intorno anche lui, ma molto più rilassato di me. “Venga, da questa parte, sono solo pochi passi a piedi. Lei che fa di bello?” e iniziamo a parlare di viaggi, il cane arranca con la lingua di fuori perché è solo maggio ma fa già caldo.
Mentre cerca la chiave giusta, do un’occhiata ai nomi dei campanelli. Parecchi nomi stranieri, parecchi italiani, e al secondo piano la Pensione ‘La Camelia’.
Poi, davanti all’ascensore, tira fuori un minitelecomando, di quelli che si usano per aprire i cancelli. “Sa, purtroppo non tutti i condomini hanno voluto pagare per l’ascensore, quindi ci tocca usare questo trabiccolo”.
La casetta mi era piaciuta subito: un bilocale al quinto e ultimo piano di uno stabile dei primi del ‘900, con i tipici balconi a ringhiera. Pareti color pesca, mobilia essenziale, balconcino che si affacciava sulla via sottostante e un bagno (con finestra!!) che invece dava sul cortile interno.
La trattativa era stata veloce, e per 400 euro mensili l’avevo spuntata.

E così San Salvario aveva accolto anche me.
Il Sig. Mancini mi aveva affidato a Sebastiano, gestore sdentato della pensione del secondo piano, nonché tuttofare del palazzo. “Lei mi dice a me quello che cci manca, e io glielo potto!” mi aveva apostrofato la prima volta che c’eravamo conosciuti. “All’apparenza può sembrare un po’ così, ma è un tipo affidabile. Lo trova sempre al bar all’angolo. Diffidi invece dell’elettricista del pianterreno. Lui è veramente strano. Dimenticavo: il bar è pulito e fanno un ottimo caffè, ma la fauna …è varia”.
Queste le chiavi di lettura che il sig. Mancini mi aveva regalato per avventurarmi nella vita di quartiere.

“Anche io sono siciliana” avevo detto a Sebastiano una volta che c’eravamo trovati insieme in ascensore. “Ah! Che si sente che sono di Palemmo? L’accento non l’ho perso, nonostante che sono qui da 30 anni ormai!” aveva risposto col sorriso sdentato.

Ma vogliamo parlare dei miei vicini di casa? La prima sera che dormivo nel nuovo letto, mentre mi accingevo a cucinare la prima cena, mi accorgo che nella spesa di 10 kg che avevo fatto, mi ero dimenticata il sale. Va bene, mi dico, quale migliore occasione per conoscere i vicini?
Così mi armo di tazzina e inizio a suonare, uno dopo l’altro, tutti i campanelli del pianerottolo. Deserto. Non c’è nessuno. Poi, quando stavo per fare dietro-front verso una cena sciapa, si apre una porta. “Dica” mi fa il signore coi capelli grigi sulla porta. “Salve, sono Chiara, la nuova vicina…non è che mi presterebbe un po’ di sale? mi sono dimenticata di comprarlo” dico tendendo verso di lui la tazzina vuota. “Capita” dice prendendola, la faccia seria. Poi se ne va, e torna per restituirmela piena. “Buonasera” e senza aspettare la mia risposta, chiude. Andiamo bene, penso. Lui, il sig. Antonio, non l’ho più visto per tutti i 10 mesi in cui sono rimasta lì. A volte lo spiavo dal balcone, ma in realtà sentivo solo la tv con le cronache delle partite. Lui era peggio di un fantasma.

Invece Andrea la vedevo sempre. C’eravamo conosciute (o conosciuti) un pomeriggio che stendevo i panni.
Olàààà! tu devi essere la ragazza nuova? Io soi Andrea, soi du Brasiu, sto alla porta accantu. Quando tu hai bisogno, tu vieni, bussa, se nun sentu, per la musica, tu bussi più forte! Va bene? Che belu che con tutta questa jenti strana, almeno una ragazza carina come te! Io facio la parrucchiera qua vicinu, quando tu hai bisogno, tu vieni al negosiu! Con questi ricioli che hai, faciu un bel taglio sbarassinu, va bene?”.
E così una volta che avevo finito lo zucchero, avevo bussato. Effettivamente la musica pompava che era un piacere. “Azucar? Ma certo! Vieni bela, vieni dentro che fa frio, c’è un’amica che le sto tagliando i capelli”. La casina era come la mia, ma dipinta di fucsia, con tanti punti luce e specchi ovunque, sembrava il doppio. Quella volta, tra una sforbiciata e l’altra, mi aveva raccontato che era a Torino da 5 anni, e che si trovava meglio che a casa sua. “Qui tutti più liberi, più rilassati…”.
Secondo me era lei che era molto rilassata.

E poi c’erano Daniela e Antoniu. Si, proprio con la ‘u’ finale. Rumeni, abitavano nell’altra casetta di proprietà del Sig. Mancini. Che mi aveva raccomandato anche loro. Devo dire che erano molto schivi, silenziosi. Però la signora Daniela mi copriva sempre i panni stesi con un telo di plastica, quando iniziava a piovere. Facevano tutti così: se pioveva, non si ritirava la roba stesa, ma si metteva un bel telo di plastica resistente sopra. Assicuro che i panni continuano a rimanere bagnati.



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