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Valentina Ceci, quando una fabbrica DIVENTA opera d’arte

Creato il 27 novembre 2022 da Manuelgaruffi
Valentina Ceci, quando fabbrica DIVENTA opera d’arteImpianto N. 18

ho visto cose che voi umani…”. Di fabbriche abbandonate ed ex complessi industriali, fotografati e dipinti, ne abbiamo visti in abbondanza, noi che siamo usi frequentare le inaugurazioni delle mostre e delle fiere d’arte contemporanea: tu chiamalo fascino dell’abbandono.

Ma fabbriche attivissime e funzionanti e abbandonate dalla presenza umana e disegnate con maniacale acribia con particolari penne biro colorate che trovi sono in Inghilterra, vai a sapere perché, questo no, non ancora, almeno per quanto riguarda l’attività retinica dello scrivente e frequentatore di mostre.

Valentina Ceci, classe 1985, di stanza a Milano, da un retroterra di scenografia e pittura si dedica all’illustrazione lavorando dal 2008 al 2012 al progetto di un cartone animato e un libro illustrato per il produttore francese Pascal Raynaud: il disegno è quindi il settore visuale in cui lei opera.

Nello specifico, la sua produzione d’arte riguarda un particolarissimo soggetto: gli impianti industriali. Ma attenzione: nulla di più lontano dal disegno “tecnico” o, appunto, industriale.

Valentina Ceci, quando fabbrica DIVENTA opera d’arte

Ci sono pittori e/o disegnatori che fanno paesaggi e poi c’è lei, Valentina Ceci, fautrice di disegni di paesaggio industrial/produttivo che non hanno nulla né dell’apocalittico né dell’estetica del luogo abbandonato, come ne vediamo da anni sia in fotografia che in pittura attraverso le svariate sensibilità degli artisti (Andrea Chiesi per la pittura e Fabiano Parisi per la fotografia fra i giovani, ma anche Guido Guidi per la fotografia ad esempio), senza contare il design industriale naturalmente, ma raffigurano una specie di trasfigurazione (estetica, non mistica) di soggetti comunque a torto giudicati poco interessanti per essere immortalati.

Non v’è essere umano, che pure viene “sottinteso” perché questi impianti li han costruiti e le fa funzionare lui; non v’è altro elemento naturale come foglie e alberi e animali e i colori del cielo e la forma delle nuvole sembrano emanazioni dirette degli impianti stessi, anche se le composizioni hanno tutte una specie di “vaporosità” dovuta all’uso delle biro colorate, una “atmosfericità” granulare, polverosa, che rimanda al detto evangelico “polvere eri e polvere ritornerai”: una contraddizione solo apparente rispetto all’industriosità testimoniata dai soggetti raffigurati, che al di là di interpretazioni pauperistiche, poveracciste e antisviluppiste (l’ambiente deturpato dalle fabbriche) rimanda piuttosto a un’estetica “lunare”, industrial/metafisica, come se fossero fabbriche sognate da un sogno o forse chissà, le fabbriche viste da loro stesse, senza  noi che stiamo tra i piedi.

Valentina Ceci, quando fabbrica DIVENTA opera d’arte

E allora in fin del conto è anche un tributo all’opera dell’uomo, che sa fare operazioni di estetica anche quando le sue produzioni dono funzionali alla produttività anzichè all’estetica. E del resto, è (anche) questo, l’arte: riconoscere valori estetici laddove proprio non te li aspetti.


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