VALERIA SEROFILLI: DAI CERCHI NELLO STAGNO ALL’ALCHIMIA DELLA PAROLA
Dopo diversi anni (ci occupammo di una precedente pubblicazione: Tela di Erato) l’amore per la poesia ci fa nuovamente incontrare con Valeria Serofilli. Quasi raccogliendo, dunque, il testimone come se fosse “un’eredità – parafrasandola – / tra noi poeti quel codice nutrito di messaggi” ci accingiamo, ora, a commentare due sue ultime raccolte: ci riferiamo a Chiedo i cerchi (n. 1 della Serie “I libri dell’Astrolabio”) ed all’inedito Amalgama (presentato all’interno di un’interessante collana di monografie di poeti contemporanei a firma di Gianmario Lucini per “I quaderni di Poiein”).
La parola e la cura: è questo il titolo che il saggista dà alle sue considerazioni critiche. E proprio dalla premurosa attenzione riservata – si passi il termine – ai ferri del mestiere vorremmo prendere abbrivo per una riflessione che si propone di evidenziare non solo i punti di contatto ma anche gli sviluppi di una poetica sicuramente ambiziosa ed impegnativa. Lo stesso autore dello studio monografico introduce l’inedito facendolo precedere da una stimolante disquisizione intorno all’annosa disputa che sorge tra i fautori dell’aspetto formale come essenza stessa dell’opera d’arte e coloro che ne attribuiscono il valore in base alle tematiche affrontate. Utile, questo suo preambolo, a farlo orizzontare – insieme al lettore – nel prendere in esame la scrittura della Serofilli, fino a fargli asserire – con acume, a nostro modo di vedere – che costante è in lei “la ricerca di una mediazione fra forma e contenuto”.
Bene, scorrendo i suoi versi non può non attrarre una squisita musicalità che si giova di precise scelte lessicali, del gioco delle allitterazioni, delle assonanze e delle rime, in un giro armonico che esalta la prosodia e l’accentuazione e il ritmo naturale del dettato e delle singole parole, ma senza ricorrere a nessuno schema prefissato, a nessuna struttura predefinita; al contrario, servendosi del verso libero e delle sue peculiarità per accendere o, meglio, colpire i vocaboli perché tintinnino come tanti bicchieri di cristallo.
Quanto abbiano finora sostenuto è così vivo e presente da mantenere sempre alto il tono, sempre vigile e coerente lo stile; e ciò vale sia per Chiedo i cerchi che per Amalgama.
Ci piace, in proposito, proporre, mettendole a confronto, due poesie tratte dall’una e dall’altra raccolta: Chiedo i cerchi e Ben altra controversia:
CHIEDO I CERCHI BEN ALTRA CONTROVERSIA A te parola non chiedo sillabe Risparmia il verso che corre controvento che squadrino ogni lato riscopri il senso che nutra di risveglio latente afflato il giusto pane, lievito / impastamento che germini una voce per non rischiare cadute di non senso perché la prassi impone falsi richiami a miti desueti buio / luce ferri lisi che non tessono divieti e gemme che non recidano radici freno che non unto si consumi A te parola chiedo i cerchi Tieni a ricordo il tempo del tuo gioco del sasso nello stagno di calcio, vicoli, urla e di risate che genera onde di pensiero Tingi d’inchiostro il tuo accorato coro E se casomai spronato e non ti curar di loro ad un concetto ti trovi a dare fiato ma vivi in ben altra controversia non farne gomitolo da gatto per cinger tempie del più verde alloro. ma getta il sasso e vedi se s’ingemma.
La lettura – diciamo così – comparata, consente di chiarire definitivamente il discorso: cosa vuole la Nostra dalla parola? Non sillabe squadrate ma, neppure, un verso nuovo, avanguardista, refrattario ad ogni norma che abbia la sola finalità di andare controvento; piuttosto, ciò cui aspira è un verso – come lei stessa dice – “che come un sasso gettato non laceri la mano ma muova di onde nuove lo stagno del pensiero”. Ci sembra, questa, un’ammissione di profonda responsabilità di fronte alla poesia, una responsabilità che nasce dall’onestà con la quale si guarda, prima di tutto, dentro se stessi (“quei cerchi che ho già in me e che si tratta solo di separare per farne scrittura”, dirà ancora).
Ha ragione Lucini ad affermare che “l’aspetto che incuriosisce e che vale la pena di esaminare è la sua capacità di conciliare in una struttura qualcosa che all’apparenza non osserva nessuna regola”; già, all’apparenza, perché le regole, invece, ci sono ma sono quelle che si è data “una poeta – come non a caso, crediamo, il curatore ama definirla – tradizionale che sceglie di rinnovare la sua forma espressiva, che si dota di un suo canone”.
Certo, “qualche concessione alle ultime avanguardie è fatta” – sostiene Dante Maffia – ma mai si avverte il bisogno di qualcosa che non sia conforme alle necessità prime del canto. In altre parole, la tematica prediletta da Valeria Serofilli è inclusiva perché, paradossalmente, esclude nella sua formazione l’intervento di qualsiasi specifico argomento.
Intendiamoci, non vogliamo, con questo, asserire che poveri siano i contenuti, anzi, sono, i medesimi, ben più corposi, molto più succosi in quanto ci parlano attraverso l’essere, e – come ci ricorda Puskin – “la parola di un poeta è l’essenza del suo essere”.
Ecco, allora, che la dedizione inesauribile allo stile altro non è, sul piano contenutistico, che l’offerta di sé , della propria interiorità ma, anche, del proprio esistere da artista nella società.
È questa l’amalgama cui fa riferimento la recente prova inedita: una lega speciale in grado di miscelare a fondo fino ad ottenere un corpo perfettamente coeso e resistente del quale si entra a far parte persino fisicamente.
Dal testo eponimo della prima sezione, Morsi di parola: “E tu leggimi mordimi impastami / e sarò il tuo più prezioso manufatto / bilanciato dolce impastamento: / frase/inchiostro, acqua e terra / cemento.”.
Prendiamo spunto dalla citazione per una nota di carattere formale che riteniamo, però, pertinente al senso di quanto andiamo verificando: l’autrice usa il segno “ / “ a mo’ di avvertimento cosicché il lettore possa soffermarsi su quel preciso momento del verso; non ubbidendo, quindi, a nessuna costrizione di tipo sperimentalistico ma rispondendo unicamente all’esigenza di nutrirsi di quell’ “acino parola”, ella vuole che si partecipi, anche noi, alla “maturata vendemmia” della sua poesia.
Le altre due frazioni tengono alte le aspettative: in Dantesche, il linguaggio diviene, in un certo qual modo, più ricercato confacendosi al tema trattato (si pensi all’incisiva chiusa di Paolo e Francesca: “A tanta passione / troppa condanna / Con Dante io vi comprendo!”); ne La chiocciola, invece, lo stesso si fa più essenziale, finanche negli esiti più lirici (“E non chiedetemi/entusiasmi / legati ad uno spago: / io non sono un aquilone nano”) preannunciando – a nostro avviso – quelli che, con molta probabilità, potrebbero essere i futuri sviluppi di questo pensiero poetante.
Poiché, tuttavia, abbiamo voluto portare avanti l’esegesi sulla base del raffronto, desideriamo sottoporre all’attenzione di chi ci legge un altro confronto, con il quale, senza aggiungere altro, concludiamo la nostra disamina di una scrittura, come poche, autenticamente originale:
TRA NOI POETI PREGHIERA DEL POETA Un’eredità / tra noi poeti (…) quel codice nutrito di messaggi / concetti quando uscirà / il mio nuovo libro minuti od eloquenti, sempre gli stessi avrà pagine di vento Tra noi poeti basta quell’occhiata i colori del tramonto e la realtà diventa un’altra cosa inchiostro d’alba / la pelle dei bambini riscritta amata / sedotta ricreata di tutto il mondo Tutto da dire Il mio nuovo libro niente da rifare quando uscirà / sarò uscita anch’io come il mignolo segue all’anulare e fuor di scena detterò intendimenti ed interpretazioni / finzione parole intrise della saggezza suggestione, in enorme abnorme di chi non più la cerca univoca emozione. Sarà allora che il mio Editore venderà copie a milioni e le ristampe e presentazioni ovunque ed interviste Quando uscirà / il mio nuovo libro sarò famosa d’erba e nuvole e da un angolo di cielo assaporerò finalmente ciò a lungo negato E se mi commuoverò il mio sorriso / rifranto all’infinito avrà tutte le sfaccettature della luce rugiada mattutina le mie lacrime il mio pubblico immenso: ogni poeta / ogni ricerca di senso. Sarà storia il trascorso il vissuto un esempio consiglio ogni sbaglio. Senza rilegature le pagine si spargeranno a mille seme di giudizio / maturato a pelle perle di esperienza Rilassata / altrove, ne gusterò il sapore, raccogliendo il frutto del mio trascorso ardore Ora che più non preme anche se oltre, il senso, non verrà disperso / eredità sofferta ma mai rimorso, il tentativo di suggerimento Non più resoconto né agli altri, né a me stessa Unico giudice l’Eterno.
Sandro Angelucci
Valeria Serofilli. Chiedo i cerchi. I libri dell’Astrolabio n° 1. puntoacapo Ed. Novi Ligure. 2008 – Amalgama. I quaderni di Poiein n° 2. puntoacapo Ed. Novi Ligure. 2010.