Valerio Evangelisti inquisitore fallito
Il collare spezzato non è la storia del Messico
di Iannozzi Giuseppe
I personaggi sono tanti, troppi, tutti tratteggiati con penna asettica: appaiono sulla scena come schizzi che non si possono dire né fantasmi né disegni minimalisti o iperrealisti. Il romanzo è ricco di accadimenti storici e politici, alcuni inventati ma confusi: il tentativo era forse quello di dar corpo a una storia di largo respiro storico, il risultato è ben diverso, non è né narrativa popolare da edicola né letteratura, molto più semplicemente, e tristemente, un centóne buono per essere sbranato a piccoli morsi da tre o quattro gatti anarchici o in odor di comunismo. O da quattro giovinastri pustolosi e butterati. Ma quattro in tutto, non di più. Fosse stato almeno uno spaghetti western, ma il buon Evangelisti non ce l’ha fatta e ha tentato il colpo grosso, quello d’un romanzo storico: non riuscendoci però. Tentativo di consegnare alla storia una storia che avesse il respiro di romanzi esemplari quali “In ogni caso nessun rimorso”, “La polvere del Messico”, “Ribelli”, “Demasiado corazon” di Pino Cacucci, tentativo che Valerio Evangelisti ha sbagliato in pieno. Il risultato è un centóne di oltre quattrocento pagine che devono essere sommate a un uguale numero del precedente “Il collare di fuoco”: con “Il collare spezzato”, Evangelisti si è allontanato in maniera spaventevole dai risultati del ciclo di Eymerich e da quello di Metallo Urlante.
Il romanzo si dilunga a partire dalla dittatura di Porfìrio Diaz, quindi la rivoluzione del 1910, guerre sanguinose di diversi schieramenti, per arrivare alla rivolta dei cristeros. Sulla scena non uno o due o tre personaggi, ma una vera e propria pletora: ma sono schizzi asettici, fastidiosi, che dicono e non dicono pur esistendo sulla pagina stampata. La narrazione è a dir poco confusa, così tanto da risultare imbarazzante. In controluce i fantasmi, forse le ombre, di Diaz, di Francisco Madero, di Emiliano Zapata, di Pancho Villa, di Alvaro Obregón, di Plutarco Elias Calles. Fantasmi umbratili che non si capisce se siano, nelle intenzioni dell’autore, la rappresentazione icastica della storia messicana o un inutile orpello per conferire credibilità alla trama de “Il collare spezzato”. Decenni su decenni che scorrono via fra il sangue e le ingiustizie: il popolo messicano è negli occhi d’un giovinetto – che il destino ha già designato presidente -, in quelli d’un’indigena, di un’operaia, di due fratelli anarchici finiti in prigione per la vita, d’un ranger del Texas, d’un vicesceriffo ladro di cavalli contro gli Stati Unitiì e di un poliziotto corrotto… Il Messico che esce fuori dalla penna di Valerio Evangelisti è abborracciato, quantomeno confuso: non ha contorni, è soltanto uno schizzo maldestro ma lungo quasi mille pagine, perché la personalissima visione del Messico Evangelisti ce la racconta in due tomi, con il “Il collare di fuoco” e “Il collare spezzato”. E’ incredibile però la mole di un imperfetto niente che l’autore è riuscito a trascinare sulle pagine, quasi mille alla fine: di epico o omerico non c’è una sola acca, c’è invece la certezza che Valerio Evangelisti negli ultimi due romanzi si è allontanato da quella prosa lucida intrigante storica e fantasiosa che l’aveva reso simpatico a tanti lettori. La speranza, che si dice sia l’ultima a morire, è quella che Valerio possa e voglia tornare a raccontare come sa, o meglio come sapeva, per mettere i puntini sulle “i”.
Molto meglio un film con Bud Spencer e Terence Hill, per la regia di Enzo Barboni, tipo “Lo chiamavano Trinità” e “Continuavano a chiamarlo Trinità”. Nel primo: un pistolero buono quanto pigro trova riparo in una cittadina dove incontra il fratello sotto le mentite spoglie di sceriffo, assunte per poter meglio perpetrare un furto di bestiame. Trinità è abile e furbo, con la sua sei colpi si trascina lentamente verso un cittadina del Sud Ovest, dove un nuovo sceriffo si è appena sistemato a insegnare la legge. Lo sceriffo è il fratello di Trinità, anche lui abile pistolero che a suon di pugni non teme il confronto con nessuno; ma non è un vero sceriffo… in cammino anche lui verso quella città, ha incontrato e subito ha sparato, pensando d’averlo fatto secco, al vero sceriffo, che si stava recando là per prendere servizio. Decide così di usurpargli l’identità e di usare la città come base nell’attesa dell’arrivo del resto della sua banda. Nella città vige però una gran confusione fra una comunità di Mormoni e il capo della città, il Maggiore Harriman, che a tutti i costi vuol prendere possesso della vallata occupata dai Mormoni per far poi pascolare la sua mandria di cavalli. I due fratelli si trovano cosi catapultati in mezzo alla più totale confusione. Dovendo scegliere da che parte stare, decidono di stare con i Mormoni, riuscendo a convincerli, con poche ma sante parole, che anche gli uomini di religione hanno il diritto di difendersi. Due ragazze della comunità si innamorano di Trinità e decisosi a sposarle entrambe, vede partire il fratello e i due compari verso la California.
Nel secondo, i due fratelli fuorilegge e vagabondi dal cuore tenero Trinità e Bambino vengono scambiati per due agenti federali e approfittano della situazione per rubare un ingente bottino nascosto in un convento di frati da una banda di fuorilegge. I due si trovano a fronteggiare, a forza di pugni e schiaffi, una banda di feroci banditi, assoldati da un ricco speculatore.
E se non vi piacciono Trinità e Bambino, allora “Dio perdona… io no”, per la regia di Giuseppe Colizzi, forse l’unico vero erede di Sergio Leone: Bill Sant’Antonio rapina un treno, impossessandosi di 300.000 dollari in oro e uccidendo tutti i passeggeri del convoglio. Uno di questi, però, prima di morire fa in tempo a rivelare il nome del colpevole. Si mettono alla sua ricerca due cacciatori di taglie: Earp e Doc che, dopo mille peripezie, riusciranno a trovare il colpevole e a impossessarsi della somma.
La Rivoluzione messicana, tra cento personaggi veri e altrettanti inventati, ne esce sconfitta: l’unica verità che alla fine si riesce a estrapolare è che gli Stati Uniti vorrebbero conquistare il Messico, per farne una colonia. Tanti gli eventi rivoluzionari, tanto il sangue innocente versato e alla fine una parvenza di stabilità sotto la presidenza, mai troppo limpida, di Lazaro Cardenas: è la nazionalizzazione, il petrolio rimane ai messicani. Ma la tragica realtà per il Messico di oggi è che è la pattumiera non solo degli Stati Uniti ma di tutto il mondo. Non servivano davvero due tomi per dirci che gli Stati Uniti mirano al Messico. Valerio Evangelisti ha tentato la via del romanzo storico a trecentosessanta gradi: il risultato finale è una epopea nulla affatto convincente, che di epico o omerico ha niente. Dimenticando la magia lovecraftiana che è nel ciclo di Eymerich e quella più orrorifica che è nel ciclo di Metallo Urlante, gettandosi a capofitto in una narrazione falsamente dostoevskiana-tolstojana, che anela a un respiro totalmente storico, Evangelisti riduce il romanzo a un cumulo di eventi accatastati l’uno sull’altro. Non basta che Valerio Evangelisti trascorra diversi mesi l’anno a Puerto Escondido per far del Messico il Messico da raccontare con serenità e rigore storico, come non basta conoscerne la storia e la vita per sommi capi.
Si vorrebbe esser generosi e poter dire, alla fin dei conti, che “Il collare spezzato” è un romanzo di serie B, un romanzo popolare se non altro, non è però possibile: siamo di fronte a un guazzabuglio di idee ed eventi, di personaggi senza sentimento alcuno, perché l’autore è stato incapace di insufflargli un seppur pallido spirito di realismo.
Per chi ama le buone letture, consiglio dunque Pino Cacucci. A tutti gli altri, a coloro che un libro manco se regalato, consiglio invece la visione di un film con Bud Spencer e Terence Hill. O uno per la regia di Sergio Leone, perché no!