La narrazione si colloca attorno all’anno 1000. Un misterioso guerriero muto, apparentemente imbattibile, viene tenuto prigioniero dal clan locale in una gabbia dalla quale esce solo per scontrarsi con altri schiavi, bestialmente, a mani nude, in combattimenti all'ultimo sangue. La notte strane visioni lo perseguitano (un sintomo di poteri paranormali o di pazzia? Non è dato saperlo, starà allo spettatore trovare la propria risposta). Un giorno, uccisi i suoi carcerieri, riesce finalmente a liberarsi. Are, lo schiavo bambino che lo accudiva, prende a seguirlo e così il ragazzino e l'uomo, ribattezzato One-Eye perché privo di un occhio, si mettono in viaggio assieme. Il ragazzino diventa la sua voce per comunicare con l’esterno. I due si uniranno ad un gruppo di vichinghi, guidati da Eirik, in partenza per una crociata in Terrasanta, e finiranno invece per trovare l’ingresso del Valhalla.
Questo gruppo di guerrieri, come anime sulla barca di Caronte (tanto per attingere a una tradizione a noi cara, si fa per dire), intraprendono il loro viaggio verso una terra di morte. Il luogo dove alla fine fanno approdo non è la meta prescelta ma una terra sconosciuta, selvaggia e ostile, ma questo nulla toglie al significato della traversata, né all’irrealtà (sovrannaturalità) del suo svolgersi, verso sud (la direzione del solstizio d’inverno e dell’aldilà); un viaggio funestato da una nebbia impenetrabile e dall’assenza di onde, che l’equipaggio cerca di propiziare con un sacrificio (sventato), un viaggio interminabile tra i morsi della fame e della sete finché la barca non entra nella foce di un fiume e la coltre di nebbia non si dirada, rivelando un panorama mozzafiato. Che posto sarà mai quello? Gli uomini cominciano ad esplorare il territorio circostante alla ricerca di cibo e di risposte e incappano in un misterioso luogo di sepoltura. Mentre Eirik decide di fondare lì una nuova Gerusalemme, i suoi uomini, stremati dalla fame e desiderosi di tornare a casa, si accingono a ripartire, ma vengono attaccati da un nemico invisibile, una bellicosa tribù indigena, e si convincono di essere all'inferno. Dopotutto cos'è l'inferno, in primis, se non uno stato della mente? Il regista ci mostra degli uomini spauriti e in preda alle visioni, e i fotogrammi del film si trasformano quasi in immagini da trip di acido. Il caos prende il sopravvento e One-Eye, accusato di essere il responsabile di quanto sta accadendo, deve lottare per la propria vita. Ben presto le sue premonizioni di morte si avverano.
Di certo se i vichinghi si insediarono in Nord America, alcuni di loro potrebbero essere rimasti in loco e essersi integrati con le popolazioni locali. Pertanto il finale di “Valhalla Rising” è del tutto plausibile: gli indigeni, non ravvisando in lui una minaccia, scelgono di non accanirsi verso l'unico superstite del gruppo di bianchi invasori (Are) e siamo liberi di immaginare che il ragazzino, nel prosieguo della storia, dopo i titoli di coda, possa essere a far parte della loro comunità. Il dubbio rimane, perché in precedenza Are aveva affermato (riportando però, o così sembra, le parole di One-Eye) che il suo destino era quello di tornare indietro, a casa sua - ma, se così fosse, perché mai rischiare la vita in un viaggio dal quale sarebbe poi ritornato, e per giunta solo? Si può dire che il suo viaggio abbia avuto uno scopo, e se sì, quale?Prima di proseguire oltre con le (possibili) conclusioni, ci sono alcune considerazioni da fare. La presenza di elementi mitologici è abbastanza evidente, ma a me sembra piuttosto che il film proponga una riflessione sul significato della vita e della lotta: non è un film religioso, “Valhalla Rising”, ma indubbiamente ha a che fare con il senso religioso, un senso religioso “primitivo” strettamente legato alla natura; violare la natura è come sfidare l’ira di dio (di qualunque dio si tratti). Oppure, la natura e dio sono la stessa cosa, perciò non contano i dogmi o i proclami, ma soltanto i sentimenti e le azioni.
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