Michele Placido firma il suo nono film alla regia scegliendo un tema scomodo ma di grandissima presa – se si considera il successo in questi ultimi due anni della serie tv Romanzo Criminale - ovvero la storia di uno dei più famosi criminali italiani del dopoguerra: Renato Vallanzasca.
Ispirato al libro autobiografico “Il fiore del male”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini e liberamente tratto da “Lettera a Renato” di Renato Vallanzasca e Antonella D’Agostino, Vallanzasca - Gli angeli del male non vuole essere un’inchiesta sul personaggio in questione, ma un film che «non assolve e non condanna», come dice Placido alla conferenza stampa, «ma si limita a raccontare una storia».
Seguendo, per certi versi, pellicole come La banda Casaroli (1962), La mia generazione (1996), Romanzo Criminale (2005), Bronson (2008), La prima linea (2009), o il meglio riuscito La banda Baader Meinhof (2008), Vallanzasca - Gli angeli del male non brilla per originalità, né diventerebbe un film necessario se non pesasse così tanto il nome di un personaggio come quello di Vallanzasca, che ha rappresentato per l’Italia non solo la criminalità in persona, ma anche un sex simbol .
Renato Vallanzasca, proveniente dalla periferia nord di Milano, è stato negli anni Settanta un simbolo, un capobanda formidabile, esempio di lucidità, coraggio e responsabilità nei confronti dei suoi affiliati. È stato il rapinatore per eccellenza, e seppe sfruttare ogni momento della sua “carriera” per lasciare il segno non solo a Milano. Nato per fare il ladro e per essere ribelle, Vallanzasca era alla ricerca di emozioni forti che trovò in rapine e sequestri di cui si rese protagonista insieme alla sua banda formata da Angela Corradi “la suora laica”, Vito Pesce “il drogato”, Mario Carluccio “il drago”, Rossano Coshis “l’uomo mitra”, Antonio Colia “l’uomo macchina – l’autista”. Stakanovisti del crimine che spesso lavoravano in due batterie da quattro in due punti diversi di Milano, come ricorda Vallanzasca nella sua autobiografia.
Personaggio carismatico, indolente, ribelle per natura soprattutto alle autorità e a chi dà normalmente gli ordini, “il bel Renè” – come fu ribattezzato dai giornali – è stato anche un uomo con dei ‘saldi principi’ (si prese colpe e responsabilità che non gli toccavano per salvare i propri compagni) ma, per sfortuna, o per deficienza dei suoi gregari, fu coinvolto in omicidi che – in alcuni casi – riguardarono persino le forze dell’ordine, costrette, a quel punto, a dichiarargli guerra.
Placido prova a raccontare, riuscendoci a tratti, vita e miracoli del “rapinatore gentiluomo” e Kim Rossi Stuart, che interpreta il sogno proibito di molte donne italiane dell’epoca, se non fosse per l’accento improbabile con cui cerca di parlare milanese, fa il suo mestiere.
Il racconto inizia con Vallanzasca in carcere e procede tra rapine, omicidi (involontari o no fa poca differenza), processi, la rivalità con Francis Turatello (interpretato con stile da Francesco Scianna), la vita nei penitenziari italiani e le fughe geniali di un uomo audace.
Il tutto accompagnato da folli amori: un po’ spenta Valeria Solarino, nel ruolo della prima moglie di Vallanzasca, mentre convincono di più Federica Vincenti (attuale compagna di Placido), nei panni della seconda moglie del protagonista, e Paz Vega che impersona l’amica di infanzia di Renato.
Un po’ sottotono Filippo Timi che interpreta il migliore amico del capo banda e che si rifà, per fortuna, in una delle scene più drammatiche del film, durante la rivolta che scoppia nel carcere di San Vittore.
Tra le new entry più interessanti spicca il volto di Lorenzo Gleijeses (conosciuto da anni nell’ambiente del teatro), nel ruolo di un ex sgherro di Francis Turatello e che, a tratti, buca veramente lo schermo.
Il film non parte benissimo, ma trova un senso a metà pellicola, per poi infine risultare convincente nella seconda parte della proiezione. La sceneggiatura – arrivata alla quarta stesura – non è il punto di forza, ma le maestranze, alla fine della fiera, riescono a confezionare un prodotto che rimane apprezzabile.
Sul soggetto Vallanzasca, definito da Carlo Bonini «il bandito italiano per eccellenza», non è facile realizzare un’opera mettendo tutti d’accordo, e lo dimostrano anche le aspre critiche che sono piovute addosso a Placido da parte delle associazioni delle vittime, durante e dopo le riprese. Alcuni temi caldi della vita del pregiudicato non vengono presi in considerazione dal regista: dalla lettera che il detenuto scrisse nel 2005 al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per chiedere la grazia, al presunto flirt che scattò tra il bandito e Emanuela Trapani, una ragazza milanese di 16 anni rapita nel 1976 dalla sua banda. Mentre il rapporto che si era instaurato tra Vallanzasca e i media – un rapporto di sfruttamento reciproco durato per vent’anni – rivela la seduzione che il bel Renè riusciva a trasmettere persino durante i processi, dove si parlava più delle sue gesta che dei suoi delitti, e questo aspetto trova sicuramente una forma adeguata nell’opera di Placido, che di comunicazione se ne intende.
«Un mito mediatico che Vallanzasca ha voluto e saputo costruire» come dice Giovanni Minoli in una puntata de La Storia siamo noi.
Un borderline che oggi non troverebbe posto, come dice lo stesso Vallanzasca, in una intervista girata in carcere, magari fatta da Pippo Baudo.
Azzardiamo una provocazione: in un Italia come quella di oggi, quella del piattume, dell’acquiescenza, dello sfacelo etico, della barbarie culturale, in cui la politica delinque spudoratamente, Vallanzasca potrebbe persino diventare un mito per le prossime generazioni e non solo per giovani criminali di periferia.
Vincenzo Patanè Garsia