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Non saprei dire quale elemento abbia contribuito di più a farmi salire dentro questa sensazione d'angoscia. Forse l'atmosfera di quella Milano degli anni Settanta, i cui grigi sono accentuati da una pellicola finto-scolorita che inevitabilmente ci richiama alla mente certe fotografie della nostra infanzia.
O forse quegli ambienti sociali in cui, negli stessi anni, cominciavano a girare grandi quantità di soldi, cocaina e belle ragazze, generando un intreccio mortale tra malavita nata dai bassifondi e losche dinamiche governate dall'alto; ambienti nei quali lo stato d'animo più comune risultava essere un'esaltazione effimera e un po' sopra le righe e, al contempo, una costante insoddisfazione, una conflittualità perennemente strisciante.
O forse ad angosciarmi di più è stata la parabola di quest'uomo, Renato Vallanzasca, detto "Renatino" o "il bel Renè", capo di una banda che in quegli anni fu protagonista di una serie di rapine, sequestri, estorsioni.
Mi angoscia il fatto che qualcuno possa scegliere una vita la cui spirale di autodistruzione e di violenza è ineluttabile. Eh sì, perché Renato Vallanzasca, dalla cui autobiografia Il fiore del male è tratta la sceneggiatura del film, dichiara di non essere il prodotto di un ambiente familiare povero e degradato, bensì di aver scelto di fare il ladro, di essere nato per questo tipo di vita.
Renato sembra interpretare la sua vita all'interno di uno scenario classico da "guardie e ladri", o "indiani e sceriffi", in cui lui ha scelto di stare dalla parte dei "cosiddetti" cattivi, e la cui principale ragione dell'azione criminale non è semplicemente accumulare soldi e diventare ricco, bensì sfidare le istituzioni, gabbare il potere costituito, metterne in luce limiti e debolezze, dimostrare di essere sempre e comunque il più coraggioso, il più furbo, il più intelligente e, in fondo, il più magnanimo.
Da qui probabilmente le critiche al film, da alcuni accusato di essere troppo compiacente nei confronti di Vallanzasca, quasi giustificandone l'operato ovvero facendone emergere il lato più positivo e quasi eroico.
Non si deve, però, dimenticare che la fonte dichiarata è l'autobiografia del bandito, ma soprattutto non si può isolare il protagonista da tutto ciò che accade intorno a lui. Al di là delle intenzioni e dell'atteggiamento a tratti fors'anche un po' infantile di Vallanzasca, che sembra aborrire la violenza gratuita e cercare il massimo risultato con l'astuzia dei metodi, risulta evidente che - se di gioco si tratta - è un gioco più grosso di lui, ben al di fuori del controllo di un singolo.
Il fascino che Renato emana (e di cui rimasero vittime molte donne e uomini) e i tratti un po' epici che lo caratterizzano sono sminuiti, se non annullati, dallo sfacelo che lui stesso provoca - o comunque non può impedire - intorno a sé, infelicità, violenza, morte, sfruttamento.
Renato Vallanzasca finisce per essere un uomo solo, perennemente in fuga, destinato ad assistere alla morte o al tradimento degli amici, condannato a reiterare per tutta la vita la sfida con lo stato, anche quando le dinamiche intorno a lui stanno cambiando. E la società pure.
Bravissimo Kim Rossi Stuart a trasmettere l'anima "grigia" di quest'uomo. Bravo Michele Placido a tenere alta l'adrenalina per più di due ore, nonostante qualche indugio un po' eccessivo sul dettaglio splatter.
Notevoli anche le interpretazioni dei comprimari (tra tutti Filippo Timi), così come la colonna sonora dei Negramaro.
In conclusione, un film che non si propone di far luce su alcuna vicenda o mistero italiano, bensì sceglie di raccontare una storia attraverso gli occhi del suo protagonista, con tutti i limiti che questo può comportare.
Voto: 3,5/5
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