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vallanzasca – gli angeli del male

Creato il 29 gennaio 2011 da Albertogallo

VALLANZASCA – GLI ANGELI DEL MALE (Italia 2010)

locandina vallanzasca

La storia del “Bel Renè” è un lungo flashback introdotto dalla (milanesissima) voce del protagonista, che in poche ed efficaci parole si presenta: odia i prepotenti ed è fortemente convinto che si nasca con una “natura”. La sua è quella di fare il ladro. Il film inizia nel 1981: la parabola criminale di Renato Vallanzasca sta volgendo al termine.

La pellicola, diretta da Michele Placido, assomiglia molto a un’altra opera del regista pugliese, Romanzo criminale: un bel noir anni Settanta dal montaggio serrato; un ben assortito gruppo di attori; una banda che è prima di tutto una famiglia; rapide ascese al successo e altrettanto rapide discese nel fallimento; belle donne e droga che iniziano a piovere dal cielo. Il tutto condito da una personale (di Renè) etica della criminalità che prevede l’uso della violenza solo come spauracchio. Un punto importante, quest’ultimo. Fin dalla prima apparizione dei mitra Renato mette in guardia i complici: “Le armi servono per spaventare. Chi uccide deve saperlo fare bene, perché poi non si torna indietro”. Una forte morale che lo porta anche a prendersi colpe non sue, accusandosi di omicidi non commessi, e che lo rende, infine, un criminale meno efferato di altri, “onesto” agli occhi dello spettatore, perché coerente con se stesso.

Al suo comandamento del “non uccidere”, però, è impossibile ubbidire in quel periodo storico italiano. Milano sta appena uscendo dallo shock di piazza Fontana, iniziano a farsi sentire altri attentati, il terrorismo politico; la polizia si innervosisce, è tesa, agisce anche oltre il limite del legale (un’esecuzione in piena regola dopo una rapina e intimidazioni notturne al citofono). E le carceri sono quelle che sono. Proprio questa ambiguità da parte dei rappresentanti dello Stato (il montaggio ci inganna anche sull’omicidio dell’agente Lucchesi, non si capisce chi estrae per primo la pistola) è un aspetto di quell’Italia di piombo che non è raccontato ma è solo ricostruibile a posteriori, integrando gli sparsi particolari mostrati nel film con il sapere dello spettatore: una caratteristica già riscontrabile nel Grande sogno che permette a Placido di evitare giudizi sul periodo, di cadere in facili trappole (anche visive), di non dire la sua su argomenti già ampiamente trattati e dibattuti, concentrandosi esclusivamente sulle vicende umane dei personaggi. Un atteggiamento che non appesantisce il film, fermandosi al di qua del revisionismo o dell’agiografia. In poche parole Placido fa cinema, nient’altro. Il resto, semmai, viene dopo.

Quella di Vallanzasca è una morte diluita nel tempo. Prima perde la donna, poi suo “fratello”, divorato dalla droga; infine perde il suo sistema di riferimenti criminali, al passare degli anni Ottanta, quando a comandare arrivano altri, più radicati e più inclini ad ammazzare. Ma non perde il sorriso, la faccia, perché non si può parlare di questo film senza accennare al suo bel viso, capace di affascinare e accomodare chiunque e qualunque situazione con un’alzata di sopracciglio, una risata, una battuta. È simpatico Vallanzasca, e non ci si senta in colpa a riconoscerlo: l’Italia stava perdendo la sua verginità, in quegli anni, scopriva il valore della bellezza, del sesso, e aveva bisogno di un eroe. Un eroe bello, finalmente, un bel viso che, in tv, risponde sfrontato alle domande, così poco ingessato rispetto alle altre facce catodiche. A prescindere dalla reale somiglianza con l’originale Kim Rossi Stuart tiene tutto il film sulle sue spalle: mai pesante, mai “troppo”, mai sopra le righe, sempre credibile, sempre bellissimo. Al contrario eccessivo, pieno di tic, maledetto, decadente e teatrale è Filippo Timi, una reincarnazione di Gian Maria Volontè capace di urlare, piangere e giocarsi l’anima per la droga come nessun altro.

Marcello Ferrara



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