di Cristiano Abbadessa
Qualche sera fa ho visto il film di Michele Placido su Renato Vallanzasca. Presentato con una certa enfasi, forse troppo compiaciuta, come “il film che aveva suscitato tante polemiche” (in effetti, l’anniversario di un omicidio compiuto dalla banda ha consigliato lo spostamento di data della messa in onda, per le proteste dei parenti delle vittime), l’ho trovato in realtà onesto e tutt’altro che agiografico: Vallanzasca e i suoi sono violenti, amorali o forniti di una morale confusa e improponibile, sono spesso deboli, stupidi e persino approssimativi nel loro stesso “mestiere”. Nulla, insomma, invoglia a eleggerli a modello a ad “assolverli”, e credo che le molte polemiche, ancora una volta, siano il classico frutto dell’ignoranza e della prevenzione, sollevate da chi, magari per un comprensibile dolore privato, parla a priori senza conoscere l’oggetto.
Riconosciuta l’onestà intellettuale e la correttezza formale dell’opera, mi pare però che il film resti ben lontano dal capolavoro. Ci sono dei buoni spaccati di ambientazione “interna”, cioè riferiti allo stile di vita della banda, e c’è la giusta e necessaria, almeno qui, dose di crudezza. Dopodiché, proprio nel loro essere onesti, regista e sceneggiatori non hanno la pretesa di conferire a personaggi prevedibili e confusi uno spessore che risulterebbe fuori luogo.
Quel che a mi avviso manca, e che avrebbe fra l’altro potuto dare davvero la stura a riflessioni e polemiche motivate, è la contestualizzazione. Manca il motivo per cui, pur con tutto il suo portato di violenza stupida, la banda Vallanzasca (e il capo in primis) era davvero circondata, all’epoca, di una sorta di alone romantico. Che non trovava alcuna giustificazione in inesistenti codici d’onore, ma trova spiegazione nella percezione che ne avevano le persone comuni. Perché, qui sta il punto, la banda agiva in anni di paura diffusa, dove tutti si sentivano esposti al rischio, ma dove a far paura erano soprattutto il terrorismo e il microcrimine: perché i terroristi colpivano indifferentemente il grande politico e l’imprenditore, il magistrato e le forze dell’ordine, ma anche il caporeparto e l’operaio che li denunciava, cioè le persone comuni; e il microcrimine, spesso opera di tossici disperati di cui le città erano piene (erano gli anni del boom dell’eroina) puntava direttamente sui soggetti più deboli e indifesi, sugli anziani e sulle donne, sui ragazzini e sui poveracci. Mentre Vallanzasca e i suoi, almeno nelle intenzioni, se la facevano con le banche e coi sequestri degli industriali, miravano al soldo e ai ricchi, e finché non hanno cominciato a sparare alla cieca non sono stati percepiti come un pericolo dalla “gente normale”.
Per proporre questa differenza, ovviamente, il film avrebbe dovuto dare maggiore spazio al contesto, alla quotidianità di Milano e dell’Italia di quegli anni. Impresa difficile, in una pellicola, perché presume una ricostruzione anche scenica, che il passare del tempo ha reso complicata (infatti, ci sono alcuni improbabili svarioni nelle poche ricostruzioni di azione negli esterni metropolitani). In mancanza del contesto, però, si finisce per perdere la reale percezione di quel fenomeno “popolare” che fu Vallanzasca.
A proposito di quegli anni e del contesto, mi viene spontaneo paragonare le assenze e i silenzi del film con la viva capacità descrittiva della nostra Pervinca Paccini in Viola, romanzo che per una parte è ambientato nella Milano degli anni Settanta (e per l’altro nella Milano di questi nostri anni). Maggiore facilità nella descrizione letteraria che cinematografica? Forse, visto che le parole non sono sottoposte agli stessi vincoli limitativi delle immagini. Ma mi piace anche sottolineare, perché è un tratto distintivo della letteratura che cerchiamo, la capacità di descrivere nella narrazione, non limitandosi alla pura e semplice evocazione. Voglio dire che se l’autrice si limitasse a evocare delle atmosfere con labili riferimenti, io, che sono milanese e ho vissuto quegli anni, potrei comunque immaginarmi e rivivere la scenografia, le quinte dell’azione, i luoghi come erano. Ma chi non è milanese o è di più giovane generazione avrebbe difficoltà, di fronte alla semplice evocazione. La descrizione, invece, riporta in vita le strade e gli ambienti di quegli anni, rendendoli visibili anche a chi non li ha mai conosciuti. Certo, come sempre avviene nella narrazione letteraria, la fotografia che si forma nella mente del lettore di Roma o Firenze, o nel ventenne milanese, ricreerà con la fantasia luoghi che non saranno davvero gli stessi che l’autrice racconta; ma, nella sostanza, ne conserveranno le genuine caratteristiche originarie.
A me, la visione del film su Vallanzasca e sulla Milano di quegli anni ha suggerito queste riflessioni, tutte incentrate sulla funzione e l’importanza del contesto. Può essere che altri, vedendo il film, abbiano istintivamente rimproverato a Placido il troppo sottile spessore conferito invece ai personaggi, la scarsa introspezione, la limitata indagine interiore. Ma questa, appunto, è la diversa sensibilità tra chi è in sintonia con la narrazione attenta al contesto sociale, che cerca Autodafé, e chi preferisce la rilettura psicologica che scava nell’animo umano.