«Forse – rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.
– Non forse. Bisogna che sia, bisogna che sia!»
(Gabriele D’Annunzio, Forse che sì forse che no)
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di Giuseppe Panella
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VALORE D’USO DI FRANCESCO RECAMI. Dall’oggettività del disegno alla trama confusa del reale
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1. L’ errore di Platini
Francesco Recami esordisce tardi, nel 2006 (è nato nel 1956, a Firenze) con un romanzo tuttavia già scritto tel quel nel 1986. Anche se precedentemente aveva pubblicato romanzi gialli per ragazzi e guide turistiche di montagna, ricade in pieno in quella letteratura degli anni Zero con i quali ormai si può cominciare a fare i conti per verificarne vezzi e novità formali, momenti di lucidità e sprazzi di follia, continuità e differenza, incursioni nella storia e sottomissioni al reale[1].
L’errore di Platini è una narrazione ispirata dalla lettura di alcuni testi straordinari di Peter Handke (primo fra tutti, La paura del portiere davanti al calcio di rigore) ma anche dalle contemporanee produzioni non più comiche ma melanconiche di Gianni Celati. E’ un romanzo di sperimentazione soft con punte satiriche non indifferenti e con un taglio volutamente freddo, oggettivo, quasi distante. L’esergo del volume (da Paolo Portoghesi) è estremamente ficcante:
«L’uomo moderno può ospitare nello spazio del suo letto un intero universo di immagini e di suoni, può avere a disposizione il suo inesauribile e personale teatro di corte, può suscitare ricordi, compiere il giro del mondo azionando qualche bottone, e in ogni momento sospendere d’un colpo tutte queste diavolerie e ritrovarsi solo di fronte a se stesso o con il suo partner»
– è in fondo proprio questo ciò che accade nel romanzo d’esordio dello scrittore fiorentino.
In un’importante partita del campionato di calcio, le roi Platini sbaglia impostazione di gioco e fa un passaggio troppo lungo che viene intercettato da un difensore avversario che a sua volta la passa al suo centravanti. La Juventus perde una partita importante. Gianni, rappresentante della ditta Melody di Carpi (Modena) e specializzato in maglierie, invece, vede avversarsi una sorta di miracolo insperato e azzecca il tredici al Totocalcio. Vince così una cifra notevole (cinquecento milioni) che spera gli cambi in maniera radicale la vita. Il che effettivamente avviene ma nel senso opposto di quello che sperava. Gianni è sposato con Sabrina, una donna non particolarmente bella né con caratteristiche significative – una volta è stata Miss Simpatia Domani alla discoteca Concorde di Chiesina Uzzanese (in un’altra vita ci sono stato anch’io). Il loro matrimonio ha dato un frutto: la piccola Marina, una bambina cerebrolesa che non migliora e sembra sempre impassibile di fronte a qualsiasi evento le si svolga davanti. Il rapporto con la figlia è diverso per i due protagonisti:
«Mentre Sabrina era freneticamente occupata a portare la bambina dai migliori specialisti, a sentire i pareri più diversi, a programmare “tutto il possibile”, Gianni era più propenso a considerare la faccenda come un brutto sogno. Non può andare in questa maniera, pensava, guardando Marina, per ore, mentre dormiva. Gianni era convinto che nella vita chiunque ha dei meriti e dei demeriti, e che la sfortuna che gli può capitare è, anche se a prima vista non sembra, proporzionale ai demeriti. E non si capacitava del fatto di essere stato punito senza avere colpe particolari »[2].
La vittoria al Totocalcio non darà la felicità alla coppia, anche se gli porterà un benessere illusorio. Sabrina si farà comprare un negozio di scarpe, Gianni proverà a fare investimenti in proprio e si sentirà un imprenditore ma il rapporto tra i due finirà male – così come si concluderà tragicamente la breve esistenza della piccola Marina, trascinata per i più diversi Istituti di recupero e, infine, vittima della sua stessa madre. La morte della bambina minorata segnerà la fine della coppia. Eppure nessuno dei due ne proverà particolare rimorso. E’, in fondo, questa la loro tragedia: la mancanza di valori condivisi che non siano quelli della corsa al successo e ai soldi come obiettivo ultimo dell’esistenza, il deserto culturale, la mancanza di una vera passione (Recami accentua questo aspetto anche quando ne descrive i spesso maldestri e insoddisfacenti rapporti sessuali) li conducono rapidamente verso una fine che, però, non sarà la tragedia quanto una sorta di limbo in cui tutte le soluzioni sono possibili (in questo tipo di finale aperto, che sarà tipico d’ora in poi, per Recami, lo scrittore, a mio avviso, segue la lezione “possibilista” della scrittura di Edgar L. Doctorow, l’autore di Il libro di Daniel e di Il lago delle strolaghe):
«Non ebbero l’occasione di avere rimorsi. Le loro vite erano costituite dai fatti che erano capitati loro, fatti che però non venivano trattenuti, venivano dimenticati, si perdevano. Per questo le loro vite sembravano loro inconsistenti, quando erano depressi. Tutto passava nel dimenticatoio, non possedevano un archivio ordinato delle esperienze, c’era al suo posto un insieme indistinto e confuso di situazioni e periodi, dei quali nessuno era privilegiato, se non, forse, per motivi cronologici, l’ultimo. Gianni non aveva rimorsi perché si sentiva incolpevole. Avevano, certo, scherzato pesantemente sulla faccenda, ma questo non toglieva che Sabrina fosse impazzita. Per Sabrina invece quello che era successo aveva perso una connotazione precisa. A forza di raccontarlo, spiegarlo, di giustificarsi, aveva quasi finito per credere anche lei alla versione ufficiale. Non le sembrava di recitare una parte, di nascondere quello che letterariamente sarebbe considerabile un atroce segreto. Anche la versione che dette a Gianni, pur con mille sfumature, non si discostava molto da quella ufficiale, quella della tragica fatalità. Lo shock dell’atto omicida si confuse con quello di una qualunque madre cui muore il figlio, soprattutto se per sua responsabilità, seppure involontaria»[3].
L’errore di Platini è un libro feroce, durissimo nella sua apparente chiarezza e placidità di vedute e sentimenti, critico fino al pessimismo più radicale nei confronti di una generazione che non ha saputo concepire nulla di diverso da un esserino sterile e incomprensibile (e che essa stessa ucciderà con il proprio disincanto). Racconto di usi e costumi del Centro Italia, il libro di Recami impressiona per la qualità della scrittura e per la nitidezza dei toni. Manca ancora il “plagio programmatico” che rappresenta a tutt’oggi uno dei momenti più significativi del progetto di poetica letteraria dello scrittore fiorentino.
2. Il correttore di bozze
L’anno dopo, è il 2007, Sellerio pubblica Il correttore di bozze, a tutt’oggi il libro più formalmente complesso e (forse) indecifrabile di Recami. Un correttore di bozze, lettore infaticabile e solitario, senza vita privata, al tavolino praticamente giorno e notte, si trova a dover correggere un misterioso racconto poliziesco dove si intrecciano giovani marchette di lusso, signore della buona borghesia desiderose di una rapida soddisfazione dei sensi, ricattatori, killer e delitti crudeli quanto gratuiti. Il correttore entra nella storia e se ne compiace mentre il suo stile spesso lo disgusta; sembra volerne capire di più proprio nel mentre se ne allontana (come succede alla cinepresa di Alain Resnais nei suoi documentari su Van Gogh o su Guernica). Il correttore si lamenta del proprio lavoro, del poco denaro che guadagna, della poca considerazione che riceve dai suoi datori di lavoro. Eppure non solo continua a farlo ma si accanisce nel volerlo fare meglio di tutti e di essere scrittore (o critico) ben migliore degli autori le cui bozze deve correggere per contratto.
«Il correttore lottava duramente, da sempre, per dimostrare che la sua professionalità era irreprensibile, che non commetteva errori, che non perdeva un refuso. Il tutto per uno stipendio da fame, e nella totale mancanza di garanzie sul lavoro. Il correttore di bozze è l’ultima ruota del carro della catena produttiva di un libro. Svolge un lavoro misero e mal pagato, spesso al nero, nella migliore delle situazioni è un precario corrisposto a notula per prestazione occasionale. Eppure si è molto esigenti nei suoi confronti e da lui si pretende molto. Ed è facile coglierlo in castagna e sostituirlo. Può aver individuato centinaia di refusi, ma se malauguratamente ne sono rimasti alcuni, eccoli lì, molto visibili, evidenti. Chi desidera al giorno d’oggi svolgere questa professione? Chi è disposto a sacrificare anni e anni di praticantato, perché il mestiere si impara solo facendolo, e ci vuole tanto, per dei compensi minimi, veramente minimi, senza nessuna certezza? Ogni casa editrice è assediata da persone, qualificatissime, che si offrono per scrivere testi di ogni tipo, migliaia di autori promettenti, migliaia di redattori “fatti”, migliaia di illustratori, grafici, impaginatori, “editor”, esperti di pubbliche relazioni nell’editoria, esperti di ipertesti, eccetera eccetera eccetera, ma chi vuol fare il correttore di bozze? E poi c’è il computer, che, come dicono loro, gli errori se li trova da sé. E come… E il correttore è una figura professionale che non esiste più… D’accordo»[4]
A un certo punto della lunga auto-narrazione (dato che in ciò consiste propriamente il libro, monologo interiore che ingloba al suo interno il racconto le cui bozze l’anonimo correttore sta correggendo), viene anche citato un romanzo breve di George Steiner[5] il cui tema è anch’essa la storia di un mitico e bravissimo proofreader – e Proofs è propriamente il titolo originale del testo narrativo). Ma il personaggio del correttore nel libro del grande critico anglo-tedesco è un ex-comunista deluso e perplesso all’alba del crollo del Muro di Berlino e la sua opera di correzione riguarda il mondo reale, non tanto le opere letterarie o i giornali. E’ la realtà a dover essere “corretta” ed emendata e questo dal 1989 in poi non sarà più possibile a meno che non si scopra quell’errore originario nella scrittura della Creazione che ha reso il mondo imperfetto e incapace di sorreggersi sulle basi sulle quali Jahwè lo ha composto. Il correttore di Recami vive, invece, tutta la propria vita all’interno di “mondi di carta” di cui non riesce molto facilmente a trovare il bandolo nascosto, la verità segreta, la capacità di mimare una realtà che sfugge ai tentativi di farsene il doppio esplicativo, illuminante, capace di chiarire ciò che non solo non si capisce ma che forse non esiste neppure. Il correttore di bozze è anche (o forse soprattutto?) una sorta di “requiem per il romanzo poliziesco” (per dirla con un autore caro anche a Recami e cioè Friedrich Dürrenmatt):
«Lo scoglio, ecco lo scoglio affiorante. Il correttore ne aveva fin sopra i capelli di quella sperimentazione light, anzi, mild, e dei tre o quattro narratori, o magari anche cinque o sei meta, iper mega. Pensava che si era arrivati alla disperata ricerca dell’indizio che fa tornare i conti, sennò è troppo facile, è troppo facile, uno legge e rilegge quello che c’è scritto per risolvere la sciarada. Il ventre lacerato, la nuova ossessione, la Scenic, l’edicola, in fondo anche l’edicolante è uno che maneggia paccate di carta stampata, eppure di quello che c’è scritto non ne sa niente. Così come la signora Lucilla, e l’addetto al controllo qualità. Che ci fosse qualche altro simbolismo da indagare? Ma lì di sciarade non ce n’erano, secondo il correttore non c’era la soluzione, il tutto assomigliava ad una presa in giro. E poi lui non leggeva per trovare la soluzione, la sua non era una lettura indiziaria, per lui non esisteva una fattispecie concreta da commisurare ad una fattispecie astratta. Il fatto singolare è che nella prima i fatti devono pur tornare, nella seconda anche no, perché è un’invenzione»[6].
Alla fine, però, nonostante tutto, sarà pur sempre il compito dell’Autore far tornare i conti, rigirare il coltello nella piaga, far risalire a galla il natante che vorrebbe affondare. E’ quanto accadrà in Il superstizioso dell’anno dopo, finora il libro di maggior successo di Recami (è stato finalista al Premio Campiello dell’anno 2009).
3. Il superstizioso
Camillo, il protagonista del romanzo, nega di essere superstizioso ma, in realtà, lo è. Crede in una serie di coincidenze tanto buffe quanto misteriose coincidenze e su di esse verifica la possibilità di orientare la propria vita e di fare, di conseguenza, delle scelte successive che potrebbero rivelarsi forse molto più importanti di quel che avrebbe potuto pensare.
«Dunque il rilevamento del passaggio di un treno sotto il cavalcavia – tenendo presente che si trattava solo di un gioco, beninteso – era per lui tuttora un fatto gaio e beneaugurante. E quando superava il cavalcavia, se aveva la fortuna di vedere correre sotto di sé alcuni vagoni, si trattasse di un lento e polveroso locale di pendolari, o di un rapidissimo e lussuoso Eurostar, lo interpretava come indicatore positivo. La giornata avrebbe potuto cambiare il suo corso solo perché i binari erano assolutamente deserti? Improbabile. O viceversa perché era in arrivo un rugginoso convoglio, che trasportava laterizi o pietrame? Certo che no. Eppure quando sentiva l’inconfondibile rumore di ferraglia sotto di sé provava una sensazione piacevole, il suo umore ne traeva beneficio, la giornata cominciava per il verso giusto. D’altronde chi, alla vista di uno o più binari. Momn si aspetta che passi un treno? Non c’era mattina che Camillo trascurasse questo rito. Arrivava un treno? Allora poteva darsi che in giornata avrebbe incassato più di millecinquecento euro. Non passava niente? Si sarebbe visto»[7].
La supersiziosità di Camillo lo porta, un giorno, a tornare a casa perché sotto il suo cavalcavia preferito sono passati ben tre treni in una volta sola (circostanza fino ad allora impensata e mai verificatasi). Qui un rumore confuso e misterioso misto di gemiti e di sospiri lo mette in allarme ma qualcosa che gli passa fra le gambe (un gatto?) lo fa stramazzare al suolo e battere il capo. L’uomo si risveglia all’ospedale e non sa capacitarsi di cosa gli sia accaduto. Camillo interroga le carte – oltre che alla “trenomanzia”, infatti, si affida anche alla cartomanzia ma di un genere molto particolare. Utilizzando lo schema di un solitario detto “suicidio” (detto così perché non riesce mai),
calcola il numero delle carte che restano fuori dalla composizione voluta e dal fatto che sia più o meno alto deduce se la situazione gli sia più o meno favorevole. Sulla questione del gatto e dell’incidente domestico di cui è stato vittima, però, non sa risolversi. Un ricordo improvviso ma confuso dei gemiti coitali ascoltati prima della caduta lo rende confuso sulla situazione ma certo del fatto che Teresa, sua moglie, lo tradisce – ma con chi? Le carte non danno risposte precise e neppure il pendolino rispolverato per l’occasione sembra essere uno strumento sicuro di consultazione del futuro. Inoltre i rapporti con la donna sono sempre stati un po’ tiepidi e basati più sul bisogno di una sistemazione tranquilla e vantaggiosa per entrambi che su una passione travolgente e continuata nel tempo (il ciclo circadiano della loro relazione sembra essere, infatti, basata sul numero sei tra anni di separazione e tra anni di avvicinamento). Lo stesso vale per l’attività lavorativa di Camillo venditore di scarpe per caso e per necessità: la morte del padre lo aveva costretto a prendersi carico del negozio da quest’ultimo gestito con metodi dittatoriali e molto personali e il suo lavoro precedente di “fotografo di matrimoni” non gli aveva dato quelle soddisfazioni anche professionali oltre che economiche che aveva sperato. L’arte di vendere scarpe è pero complessa e difficile (comprare scarpe è qualcosa di molto più definitivo per il cliente che lo fa rispetto all’acquisto di altre merci più deperibili o di capi di vestiario più facilmente fungibili e sostituibili) e Camillo non vi si è mai adattato fino in fondo. La ricerca della colpevolezza della moglie lo spinge a tutta una serie di azioni tra il buffo e il poco determinato nei metodi utilizzati fino al tentativo di incastrarla con le prove sicure delle fotografie scattate a Roma nella casa di una zia Maria malata che la moglie di sovente andava ad assistere (e che invece Camillo considerava il luogo deputato degli incontri d’amore della donna fedifraga). Il finale sarà tragicomico e modellato su quello di un romanzo, Thérèse Raquin di Émile Zola, uno dei capolavori del Naturalismo francese, che Recami ha utilizzato come punto di riferimento parodico. Perché, in effetti, il finale tragico dell’opera zoliana diventa qui una sorta di omaggio alla consapevolezza che la vita continua nonostante le profetiche consultazioni di carte da gioco o binari ferroviari…
4. Il ragazzo che leggeva Maigret
L’anno dopo, tuttavia, Francesco Recami si dedica a qualcosa di completamente diverso. Il ragazzo che leggeva Maigret è un romanzo di formazione sotto le vesti di una sorta di detective novel per l’infanzia – come lo scrittore fiorentino aveva già scritto anni prima (il romanzo poi entrerà l’anno dopo nella cinquina del “Premio Chianti” del 2010).
Il ragazzo Giulio ha solo tredici anni ma ha già un fisico ben formato (è grosso, ha le spalle larghe e un’ombra di pelo sulle labbra) e dei gusti ben definiti: gli piace la cucina saporita e un po’ greve della madre composta essenzialmente di piatti di carne e di dolci con la panna e ama leggere i romanzi di Georges Simenon, soprattutto le storie con protagonista il commissario Maigret (d’altronde si chiama Giulio proprio come lui…). La sua passione per le inchieste del grosso e umanamente ispirato poliziotto del Quai des Orfevrès gli ha fruttato il nomignolo di Maigret con il quale lo interpellano quasi tutti quelli che lo conoscono (tranne i genitori, ovviamente). Suo padre è il fattore di una tenuta, quella di San Vittore (come quella di Saint Fiacre in cui era vissuto Maigret fino al momento di trasferirsi a Parigi), che ha certamente conosciuto momenti migliori e che ora si è ridotta ad un’unica fattoria e a non molti vigneti e capi di bestiame. Il proprietario è la Contessa di San Vittore ormai vedova ma c’è anche un erede, detto il Signorino, che non bada agli affari di casa ma si concede un’intensa vita mondana, auto di lusso (possiede una Porsche 3600 Carrera) e donne di livello superiore al normale anche come pretese economiche. Maigret va a scuola dove va bene ma non ha molti amici – è appartato, più serio di quanto lo siano i ragazzi della sua età, pensoso e con una forte vena di immaginazione creativa. Giulio è in realtà più “adulto” di quanto dovrebbe essere e ha molta più esperienza di altri ragazzi.
Una mattina in cui ha nevicato e non si può uscire in bicicletta, Giulio va alla fermata della corriera ad aspettare il mezzo pubblico che lo porterà a scuola. Mentre si reca alla fermata, gli sembra di intravedere qualcuno che getta qualcosa nel canale che sbocca nella Chiusa poco distante da casa sua e poi vede salire un uomo con due grosse valigie che apparentemente sembra trasandato ma porta ai piedi un paio di eleganti scarpe gialle di cuoio inglese…
Parte così l’avventura poliziesca del giovane Giulio detto Maigret e prosegue con un’inchiesta in piena regola, colpi di scena, fughe, inseguimenti e perfino un sequestro di persona che vede protagonista il ragazzo colpevole soltanto di essersi impicciato di ciò che non lo riguardava e di essersi incaponito a voler scoprire la verità con i pochi mezzi che aveva a disposizione.
Ma il fatto è che tutto (ma proprio tutto) quello che si incontra nel romanzo di Recami appartiene al mondo della celebre creatura frutto della fantasia letteraria di Georges Simenon: ogni personaggio, ogni dettaglio, ogni situazione, ogni luogo, quasi ogni nome (e sarebbe interessante capire a che cosa si è ispirato l’autore per assegnare questi nomi – uno dei personaggi del romanzo, ad esempio, si chiama Cottus Gobio che è il nome linneiano di un curioso pesce meglio noto comunemente come lo scazzone…).
Tutto l’ambiente in cui vive Giulio, i luoghi, le situazioni, i personaggi, le figure rappresentative sono tratte o ispirate ai romanzi di Simenon (non soltanto maigrettiani – otto capitoli del romanzo, L’amante senza nome (in realtà il racconto si intitola La bella senza nome), La casa sul canale. Gli sconosciuti in casa, L’uomo elegante, La scala di ferro, Piccoli maiali senza coda, La linea della fortuna, Delitto senza castigo, portano titoli ricavati da testi simenoniani in cui non compare il commissario francese). Giulio vive vicino a una chiusa ormai in disuso e senza speranze di essere recuperata al commercio attivo (La chiusa no. 1), è il padrone semiffuciale di un Cane Giallo (Maigret e il cane giallo, splendido romanzo del 1931), si scontra con un bracconiere che una volta faceva il Carrettiere (Il cavallante della “Provvidenza”), cerca informazioni in una trattoria, l’Osteria da due soldi, dove si fermano camionisti e operai della zona (Maigret e l’osteria da due soldi), ha una stufa che accende con amore ed entusiasmo allo stesso modo in cui il commissario lo fa nel suo ufficio del Quai des Orfevrès e che definisce la sua “amica” (L’amica della signora Maigret), cerca altre informazioni più sicure riguardo il destino di Cottus Gobio, commerciante di vini presso tre vedove che vivono vicino all’Osteria da due soldi (Maigret e il commerciante di vini, Maigret e la casa delle tre vedove – titolo italiano un po’ infelice del maggiormente calzante La Nuit du carrefour del 1931 divenuto poi anche un film per la regia di Jean Renoir nel 1932 e con il fratello di quest’ultimo, Pierre, quale primo interprete del commissario sullo schermo).
E poi i testimoni reticenti, gli aristocratici e i poveri diavoli di altri tre Maigret come pure i Due giorni per Maigret (che però non esiste in edizione francese originale) o addirittura il puro e semplice Maigret (romanzo del 1944 che in Italia si intitolava Maigret e il nipote ingenuo).
Recami preferisce i titoli delle prime edizioni Mondadori (che sono quelli che evidentemente ha letto) alle più filologiche (ma meno creative) titolazioni delle nuove edizioni Adelphi.
Ma soprattutto costruisce un pastiche tra i più curiosi e interessanti tra situazioni ricavate dai romanzi di Simenon e la vicenda di un ragazzino impiccione, mangione, tenace e intuitivo che li ama e vorrebbe viverci dentro.
Il risultato è un romanzo con una trama intrigante, fatta di eventi misteriosi e poco chiari, intessuta di casi e di misteri ma con delitti francamente minori (non c’è alcun spargimento di sangue, ad esempio, ma solo un inseguimento terrificantemente cinematografico da cui Giulio esce tutto sporco, stracciato e con una caviglia gonfia) e che si conclude, anche per la buona volontà del ragazzo, con nessuna incriminazione giudiziaria.
E’ la differenza tra il noir francese e l’hard-boiled americano a fare la differenza?
A Giulio (e quindi al suo interprete Recami) non piacciono le storie della “scuola dei duri”. Lo dice esplicitamente alla fine del romanzo-pastiche:
«Alla fine dei gialli c’è sempre qualcuno che ricostruisce i fatti. Certe volte, se la storia è molto complicata, questi riassunti sono lunghi e contorti. Maigret pensava ai gialli di Marlowe, il poliziotto privato americano, che andavano sempre a finire con delle lunghissime spiegazioni di questo investigatore. Ciò avveniva perlopiù sotto la minaccia delle armi dei criminali, che invece di farlo fuori subito e senza perdere tempo, stavano a sorbirsi i suoi estenuanti resoconti. Con la sua parlantina tramortiva i suoi carnefici, e poi riusciva miracolosamente a mettersi in salvo, mediante una sparatoria. Così il lettore aveva modo di trovare spiegazione ad una infinità di fatti che non tornavano e in cui non ci aveva capito niente, e Marlowe salvava la pelle e poteva partecipare al romanzo successivo. Il commissario Maigret invece faceva delle brevi ricostruzioni, nel suo ufficio. Le vicende che aveva da sbrogliare non erano mai così complicate» (pp. 173-174).
E’ forse questo il segreto del perché questo romanzo si legga così volentieri nonostante l’aspetto un po’ artificioso che potrebbe assumere agli occhi dei lettori – un romanzo che assomiglia a una coperta patchwork fatta di elementi ricavati da romanzi altrui, situazioni altrui, personaggi altrui. Lo si direbbe un romanzo post-moderno alla Umberto Eco se non fosse che tutto poi alla fine risulta più originale e più completo della somma delle sue parti.
La differenza, in realtà, qui la fa lo stile e quello di Recami è limpido e scandito come si addice a un romanzo tradizionale della modernità – o perché la sua scrittura assomiglia a quella che si può incontrare in un romanzo di Simenon?
5. Articolo 1. Racconti sul lavoro
Articolo 1 – come dice lo stesso titolo – è una raccolta di racconti dedicati al mondo di un lavoro che non c’è o che non c’è più. Il primo di essi (L’uomo è forte), infatti, scritto da Andrea Camilleri è la storia di Tano Cumbo che ha perso il lavoro nella fabbrica di mattoni refrattari in cui lavorava e che si riduce, per mancanza di denaro e per la scarsezza della pensione maturata, a fare il guardiano di cani di razza. Una notte si scoprirà simile ad essi e si metterà ad abbaiare. E’ una metafora (certo non pienamente riuscita) di una condizione umana che trova nella morte del lavoro la sua fine della corsa antropologica. Gli altri racconti che compongono il volume sono parimenti diseguali. Ugo Cornia, ormai promettente scrittore carpigiano, redige una sorta di flusso di coscienza (Trancia) sulla base delle esperienze giovanili di un ragazzo che va a lavorare in fabbrica, addetto a una trancia da alluiminio, per comprarsi il sospirato motorino adolescienziale. Laura Pariani (Chi lavora gh’a una camisa…) racconta una serie di tristi storie di lavoratori che hanno perso motivazione alla vita per via di un lavoro stento e scarso, Ermanno Rea (L’uomo dalle mani d’oro, il racconto forse meno riuscito del mazzo), invece, quella dell’amicizia tra un bibliofilo un po’ patologico, Lucio Ammenda, e Tadeusz, l’immigrato polacco che lavora per lui come giardiniere e gli costruirà una stupefacente libreria che raccolga i testi antiquari da lui acquistati nel corso degli anni. Alfredo Stassi (Il Figlio del Re – titolo vagamente jacklondoniano) ricostruisce la pesca ai tonni e il passato di un’attività che aveva conosciuto nel tempo una ben maggiore grandezza e coscienza lavorativa.
Quello che spicca nel volume, tuttavia, è il racconto di Recami (Le lenti progressive).
Un racconto feroce nella sua apparente mitezza, una storia di ordinaria cattiveria in un contesto quotidiano apparentemente poco significativo. Michela lavora alle Poste e ha bisogno di un paio di occhiali nuovi. Dopo molte esitazioni si fa prescrivere delle lenti progressive buone sia da lontano che da vicino. Dopo altrettante esitazioni sceglie una montatura molto costosa (firmata da Alain Mikli, creatore francese di occhiali molto alla moda) e la sfoggia come prima volta un giorno in cui alle Poste c’è una promozione (il Day Folder) di francobolli da collezione. Mentre conclude una vendita che non si sarebbe mai aspettata, qualcuno le ruberà le lenti lasciate sul bancone dello sportello perché ancora troppo nuove e spesso disagevoli da usare.
La storia di Michela è esemplare. La donna vuole migliorare le sue prestazioni come impiegata postale e contemporaneamente rendere più adeguato il suo aspetto esteriore con questo paio di lenti in cui investe parecchie cure e, soprattutto, denaro. Quando pensa di aver ottenuto un risultato notevole dal punto di vista commerciale vendendo due folder di francobolli pregiati (di cui uno fatto con autentico merletto), perde di vista gli occhiali per lei preziosi e qualcuno glieli ruba. Diosastro totale! Recami è straordinario nel raccontare questa storia di ordinaria follia metropolitana.
6. Prenditi cura di me
Anche Prenditi cura di me (premio Capalbio, premio Castiglioncello nel 2010) esce da Sellerio l’anno dopo. Ma è un libro completamente diverso rispetto al più buonista Il ragazzo che leggeva Maigret. Il racconto delle relazioni che intercorrono tra Stefano Maltinti (nomina sunt consequentia rerum) e sua madre Marta è una storia sgradevole (una moralità come le commedie migliori di George Bernard Shaw), fatta di meschinità, cattiverie, incapacità a vivere, desideri eccessivi e ambizioni infelici. A differenza del protagonista di L’errore di Platini, Gianni Secci, l’ormai attempato Stefano non ha mai avuto colpi di fortuna ma qualche aiuto da parte dei genitori sì. Li ha dissipati, ha consumato il fallimento della sua esperienza matrimoniale con Alessia senza avere figli, ha provato ad aprire un bar e un pub a Firenze ma alla fine si è ridotto a fare trasporti di vini pregiati per conto di una cooperativa cui appartiene. Dopo la morte del padre, Stefano ha un solo obiettivo in testa: quello di mettere le mani sui soldi lasciati alla madre in eredità e che quest’ultima si rifiuta di fargli avere anche in minima parte. In una notte di tregenda, la povera Marta ha un ictus.
Da allora in poi, tutte le cure relative al suo stato di invalida semi-permanente ricadranno inevitabilmente sulle spalle del suo unico figlio. Persuaso del fatto che la madre ormai incapace di badare a se stessa finirà in un ospizio per persone anziane nella sua situazione e a lui sarà possibile amministrarne il patrimonio, Stefano si sente rispondere che la madre reagisce bene alle cure, che è meglio se continua a vivere nel suo habitat naturale, che basterà prenderle una badante per il primo periodo in cui tornerà a casa e non saprà provvedere alle proprie necessità primarie (primi fra tutti i suoi bisogni naturali). La madre non è tanto contenta di questa situazione ma tant’è:
«La Marta qualche obiezione l’avrebbe sollevata, ma non ne aveva ancora la forza. Valeva la pena di lasciarsi andare, affidarsi a qualcuno? Le sue resistenze erano naturalmente forti, ma ora cosa poteva fare? In che modo opporsi? Come spesso succede a chi ha subito un ictus era diventata più aggressiva e minacciosa, e sosteneva di non aver bisogno di nessuno, che lei aveva tante amiche, che se lui voleva metterle una straniera in casa e liberarsi di lei allora poteva anche andarsene. E quindi Stefano si sarebbe macerato al pensiero che non solo quel pezzo di merda non gli era minimamente riconoscente per quello che faceva per lei, ma proprio non lo considerava, addirittura continuava a fare la vittima, e inoltre non si fidava. Ma questa volta lui non avrebbe potuto sbattere la porta e andarsene come fanno i ragazzini, questa volta era lui che aveva la responsabilità, era prigioniero della situazione, senza via di scampo. “E poi voi continuate a dire che io ho rischiato la vita, che mi è andata bene, che sono mezza morta. Ma che mi sarebbe successo? Un malore, ma io non mi ricordo niente. Hai spento lo scaldabagno?”»[8].
Dopo un po’ di tempo e dopo aver trovato una badante a suo modo capace e adatta (María Asunción, una timida e piuttosto sbiadita sudamericana religiosa e dall’italiano approssimativo), Stefano riesce anche a farsi firmare una delega che gli dovrebbe permettere di gestire il denaro della madre. Quest’ultima, alla fine, sembra cedere al desiderio del figlio ma il finale riserverà a quest’ultimo una sorpresa amara e del tutto imprevista: la donna, piuttosto che cederlo al figlio, preferirà trasformare i suoi titoli di credito in danaro contante e poi bruciarlo nella vasca da bagno approfittando del fatto che Stefano andrà in moto con una certa Daniela (che vuole cercare di intortare) alla corsa motociclistica Superbike di Assen. Ma il finale resta aperto, nonostante tutto, anche se il futuro di tutti i protagonisti non sembra né roseo né promettente, anzi.
Stefano rappresenta l’italiano medio – quello che vuole fare fortuna in fretta, senza lavorare o studiare granché, che crede nei miti balordi di una televisione di classe e che, soprattutto, è convinto di non essere responsabile di niente di quanto di negativo gli accade. La colpa è sempre tutta degli altri, della società in cui vive, della sfortuna nera che lo perseguita – ma mai, mai, dei propri errori:
«Sdraiato sul suo divanetto, con Bozzo accovacciato sotto di lui, Stefano sognava un percorso alla Mildred Pierce[9], nel quale all’apertura di un locale ne seguiva un’altra. Non che lui avesse la più pallida idea di chi fosse Mildred Pierce, però si immaginava una progressione a cascata, dove l’idea si propagava, e il nome Stefano diventava una specie di marchio di fabbrica, un’insegna di successo nel food & beverage fiorentino. Tutto questo con centoventimila euro? E perché no? In fondo molta gente che aveva avuto successo era partita con molto meno, anzi, aveva fatto debiti sulla base di niente, credendo ciecamente in quello che faceva. Ah, se solo Stefano fosse stato un po’ più coraggioso… D’altronde ora l’idea era buona, e bisognava svilupparla, senza remore… eppure nel fondo dell’anima di Stefano sopravviveva anche la possibilità di non darsi a nessuna intrapresa, e di spogliarsi completamente della civiltà capitalistica occidentale, e trovarsi un posticino… come diceva quel pizzaiolo bresciano che era andato in Messico… Era una alternativa rassicurante, Stefano non era così scemo da pensare che aprire un wine bar a Firenze fosse una ipotesi esente da rischi, e quindi… D’altra parte gli piaceva immaginarsi un successo su piazza e la possibilità di liquidare i suoi precedenti creditori col sorriso sulle labbra»[10].
Così Stefano trascorre il suo tempo libero in vuote e impossibili fantasticherie e sua madre lo punisce nel modo più crudele per un appartenente alla cultura (media) dell’Occidente: distrugge irreversibilmente il suo denaro (o almeno quello che lui credeva proprio)…
7. La casa di ringhiera
Con questo libro, Recami approda (o ritorna?) al poliziesco, al romanzo d’investigazione, a quello che in Italia malamente si suol chiamare “giallo”[11]. Amedeo Consonni è un pensionato ancora in gamba che si prende cura del suo nipotino Enrico e abita in una delle ormai poche case di ringhiera ad essere sopravvissute nella cintura metropolitana di Milano. Il suo hobby prediletto è quello di “collezionare” delitti ovvero raccogliere articoli di giornale, dati sensibili e informazioni presunte importanti su una serie di delitti accaduti in Italia, soprattutto nelle zone limitrofe alla sua sede abitativa. La mania di Consonni può sembrare innocua e poco nociva per sé e gli altri ma i suoi archivi ormai tracimano nella sua casa di proporzioni modeste e occupano uno spazio notevole:
«La sua era una collezione di crimini. Non che questi crimini li mettesse in atto, no, per amor del cielo, o che lui con i crimini avesse nulla a che vedere: lui li collezionava tenendone un archivio, perché tutti i giorni, da anni, ritagliava dai giornali tutto ciò che riguardasse notizie di assassini, delitti efferati, uccisioni, insomma ci voleva il morto, e incollava i suoi ritagli su certi quaderni neri, oppure li inseriva nelle cartelline e nei classificatori multicolori. Potrebbe sembrare una passione un po’ perversa, ma nel caso di Consonni non lo era. Consonni infatti non si sentiva per niente in colpa, non gli passava neanche per la testa che il suo interesse fosse determinato da appetiti sadici e morbosi per i delitti commessi da altri, un voyeur impotente che prende gusto di fronte al coraggio altrui di intraprendere la strada del crimine, o dal fatto che negli ambienti “bene” il vizio alla fine venga punito. Lui pensava che non ci fosse niente di male nell’interessarsi dei crimini d’Italia, non ci vedeva niente di pruriginoso, niente di strano»[12].
Quello che lo affascina ad apertura di romanzo è il caso del signor Antonino Rebaudengo, ucciso in maniera orribile e trasformato in una sorta di versione di carne della Sfinge di Giza. Dopo essere stato eviscerato ed evirato (da cui il titolo di “Sfinge di Lentate sul Seveso” adottata dai giornali in vena di sensazionalismo). Consonni ha raccolto molta documentazione sul tragico episodio ma, per amore di conoscenza e completezza, si reca sul luogo in cui è avvenuto per trovare una sorta di verifica visiva della dinamica del delitto e per sentire qualche testimonianza orale. Sarà così che si incontrerà con la signora Orbazza e i suoi gattini teneri e dolci… Intanto, però, nella casa di ringhiera dove abita, avverranno fatti che lo coinvolgeranno da vicino e di cui sarà testimone se non protagonista. I vicini di casa, Antonio pregiudicato di origine meridionale ed Erika, la sua provocante mogliettina, vivono un ménage piuttosto movimentato sotto il profilo sessuale e sentimentale: lei tendente alla promiscuità, lui geloso ai limiti della paranoia (tanto da farle portare in sua assenza una sorta di cintura di castità a mo’ di tappo ostruente). Le vicende familiari di un altro inquilino, offuscato ormai dalla dipendenza dall’alcool e causa di pesante imbarazzo e timore per la moglie e i suoi figli adolescenti si intrecceranno con quelle degli inquilini più giovani e coinvolgeranno lo stesso Consonni e il suo nipotino.
In realtà, la trama del libro è molto complessa, molto articolata e talvolta irresistibilmente comica nonostante i delitti o pseudo-tali che vi si susseguono e con diversi episodi che si mescolano a incastro (“dissolvenze incrociate” avrebbe detto David Wark Griffith): ognuno di essi, in certa misura, dipende dall’altro e tutti sono sospesi in attesa della soluzione finale che, però, non verrà per bocca del signor Consonni ma per quella dell’autore. Le diverse storie, tuttavia, confluiscono in una sorta di gran finale, un happy end consolatorio che ha qualcosa di felliniano.
Prima del colpo di scena finale (che non può essere raccontato), però, il signor Consonni ha una sorta di resipiscenza che lo fa ripiegare su stesso e pensare al proprio hobby come a qualcosa di negativo, una sorta di “male oscuro” che lo consuma e lo spinge verso una dimensione malvagia:
«Non avrò mica l’Alzheimer, si era chiesto, incapace di dare un senso a tutto quello che era successo, o che forse si era sognato. Una cosa era sicura, avrebbe abbandonato per sempre la sua passione di raccogliere notizie sugli eventi criminosi. Mai e mai più. Era stata quella sua insana passione a metterlo di fronte a quello che aveva vissuto, fossero allucinazioni o meno. Programmò di fare un bel falò di tutti i suoi archivi, magari conservando le pregiate custodie rivestite in seta. Poteva trovarsi un hobby completamente diverso, chi lo sa, forse raccogliere notizie o materiali di tutt’altro tipo, o darsi al modellismo navale. Su questo per il momento aveva le idee confuse, però una cosa era certa, non si sarebbe mai più occupato di crimini, non poteva dimenticare quello che aveva visto o creduto di vedere. E se lo aveva effettivamente visto ci sarebbe stato da preoccuparsi parecchio: che fine aveva fatto il signor Antonio? Che cosa era successo all’Enrico? Il problema era se quello che aveva creduto di avere visto non lo aveva effettivamente visto. E tutto deponeva a favore di questa seconda ipotesi»[13].
Successivamente, però, l’euforia lo spingerà a continuare e se il romanzo si conclude con tre puntini una qualche ragione ci sarà. Del romanzo è annunciato un sequel ma questo non basta a considerarlo non concluso o aperto. Rispetto a un romanzo come Il correttore di bozze, ad esempio, dove la struttura aperta era necessaria alla struttura del conferimento metaspoietico dell’evento narrativo, qui la dimensione del narrare non è avvolta su se stessa ma si distende in modo volutamente e direi palesemente lineare. La scrittura è pur sempre quella ironica, puntuta e oggettiva dei precedenti libri ma qui c’è un qualcosa di più: la gioia pura del raccontare storie e del raccontarle partecipando questa gioia.
Recami si conferma scrittore di storie destinate al “forse” nonostante vogliano essere più che sicure del loro fondamento nella realtà che descrivono (e con una vocazione all’oggettività che è la forza della scrittura del loro autore). Tutti i suoi personaggi sono legati a quel “forse che sì forse che no” che li rende interessanti e spesso intriganti. Il linguaggio del caos e del caso in cui si trovano assai spesso invischiati e avvolti li rende volubili e volatili ma legati al suolo delle loro nevrosi e delle loro angosce quotidiane tutte italiche, tutte provinciali, tutte spaventosamente meschine eppure al limite del sanguinario e del pateticamente morboso.
Scrittore del caso e della necessità (linguistiche), dunque, Recami si propone per ora come scrittore di notevole interesse, sicuramente in crescita non solo quantitativa e i cui prossimi sviluppi sarà opportuno scrutare con la massima cura.
8. Gli scheletri nell’armadio
Nel libro successivo, infatti, lo scrittore fiorentino mantiene sicuramente le promesse anche se rinvia ancora, al prossimo romanzo forse, la risoluzione definitiva del plot che sorregge la storia che continua a raccontare con ostinata precisione e puntigliosità.
Tutto sembrerebbe essere rimasto immutato nell’edificio milanese in cui era ambientata l’azione tragicomica che aveva avuto luogo nel precedente La casa di ringhiera. Dopo il colpo di genio (o di fortuna?) che aveva permesso ad Amedeo Consonni, tappezziere in pensione e vedovo (non più troppo affranto) con un nipotino, Enrico, che la figlia gli appioppa quotidianamente utilizzandolo come baby-sitter, di risolvere il complesso caso poliziesco della Sfinge di Lentate (Brianza), tutto sembrerebbe essere tornato alla normalità. Il non più giovane investigatore si è ripromesso di non cimentarsi mai più in investigazioni troppo azzardate e di rinunciare alla sua attività di “collezionista di crimini”. La sua nuova fiamma (nel romanzo precedente quest’ultima pare alimentata da un po’ di Viagra), Angela Mariotti, un’insegnante di Lettere divorziata in pensione, invece, ha qualcosa che vorrebbe comunicare al suo non più giovane “amoroso” ma che risulta molto difficile da dire, imbarazzante e doloroso (ma non sapremo mai cos’è). Infatti, l’annoso confidente, quando il racconto della signora comincia ad addentrarsi nel meandro dei particolari più interessanti della vicenda, cade prima vittima di una sonnolenza inarrestabile, poi, travolto dai problemi che gli si sono addensati sul capo, si distrae e chiede che la signora sua amica gli ripeta ciò che ha detto facendola indignare. Gli altri abitanti della casa di ringhiera continuano nelle loro specifiche attività. La signorina Mattei-Ferri, pettegola insopportabile e spiona accanita nel suo vizio segreto, continuerà ad occuparsi degli affari altrui con una pertinacia degna di miglior causa. Ma anche lei avrà il suo bel daffare visto che la sua richiesta di aggravamento delle proprie condizioni fisiche con conseguente richiesta di assegno di accompagnamento sarà funestata prima dalla paura di una perentoria visita fiscale da parte della ASL e, successivamente, dalla consapevolezza che tutto il mondo rappresentato da Facebook potrà sapere delle sue brillanti attività di ballerina perpetrate a Salsomaggiore durante la sua annuale settimana di vacanze insieme all’amica Magda che l’ha ripresa e squadernata sul social network più popolare del mondo. Luis De Angelis, appassionato cultore di automobili che non potrebbe permettersi, si vede affidare una poderosa e stratosferica BMW Z3 3.2 24 valvole dal suo mefistofelico nipote Daniel che vuole che gliela custodisca in attesa di venderla. Il vecchio autista non saprà resistere alla tentazione di guidare il mezzo affidatogli “in conto vendita” e parcheggerà in strada la sua vecchia Opel Vectra cedendo il preziosissimo posto macchina in cui essa veniva alloggiata al nuovo bolide da custodire.
Dopo un giro di prova accompagnerà Consonni nel corso della sua nuova indagine e subirà la sottrazione della macchina, fatto per il quale il nipote vorrebbe imporgli l’esborso del suo valore in euro per compensarlo della perdita. Ma la minaccia dell’infido nipote gli si ritorcerà contro quando il vero proprietario del mezzo, cui l’automobile era stata riportata dal parente malefico, approderà nel cortile della casa di ringhiera per altri motivi (restituire un taccuino di appunti perso dal Consonni). De Angelis comprerà la BMV Z3 a buon prezzo e scaccerà trionfalmente e in malo modo il nipote acquisito, accompagnando la sua fuga con una ben assortita sequela di contumelie.
L’alcoolista Claudio Giorgi, sequestrato nel romanzo precedente dai suoi figlioli per costringerlo a disintossicarsi, inizierà una sorta di percorso di redenzione dopo che la moglie Donatella è andata via di casa minacciando separazione legale e richiesta di alimenti. Nonostante il campo di battaglia domestico sia ormai sgombro dai fastidiosi affini e consanguinei, Giorgi capirà che è necessario cercare di emanciparsi dal demone alcolico e in questo lo aiuterà, forse senza volerlo, Erika, la vicina di casa il cui marito Antonio, manesco e prepotente, è sparito nel corso della narrazione precedente. La notte d’amore tra i due non sarà granché soddisfacente, va detto, ma il fatto che la moglie Donatella li sorprenda insieme in casa costringerà sicuramente il bevitore ora non più tanto accanito a considerare la necessità di un cambiamento di stile di vita e di una ripresa dell’attività lavorativa. Anche Erika, sempre alla ricerca di un lavoro che le permetta di mantenersi e priva di una qualsiasi professionalità adeguata allo scopo, annuncia, in fine di romanzo, che lascerà il mini-appartamento che occupa per qualcosa di meno caro a Sesto San Giovanni.
E Consonni? Sarà preso tra tre fronti e saprà cavarsela benissimo.
Preso tra la nuova fiamma Angela che vorrebbe averlo tutto per sé e far convergere convenientemente sui suoi problemi la sua attenzione in modo più vigile e la figlia Caterina che teme che la donna si sia messa con il padre per lucrare la proprietà del prezioso appartamento di quest’ultimo (la donna fa l’agente immobiliare e queste cose le sa bene), dovrà subire anche le pressioni del suo vecchio collega di lavoro Carlo Barzaghi che gli chiederà di occuparsi del mistero degli scheletri che ha trovato nell’intercapedine murata di una sua casa di montagna che sta ristrutturando. Per convincerlo a iniziare delle investigazioni adeguate alla sua fama di investigatore dilettante, l’uomo gli regala un bel mobile ad angoliera che Consonni prefigura già come dono di Natale per Angela che possiede una cospicua collezione di tazzine di caffè cui vorrebbe dare un’ospitalità confacente alla loro bellezza e rarità. Ma in quest’armadio, Barzaghi ha riposto i tre scheletri interi (due di uguale altezza e un altro più piccolo) che ha trovato nella casa da ristrutturare. La ricerca di chi siano i tre ritrovamenti ossei occuperà tutto il corso del romanzo: prima identificati con quelli dello scomparso ingegner Viganò, transfuga per via di Tangentopoli e scomparso da tempo e di due ignoti, saranno poi identificati con sicurezza nelle strutture ossee di due gemelli scout, Ivan e Yuri Cavenaghi e della loro amichetta e amore segreto, Raffaella, scomparsi durante un’escursione montana culminata in una tempesta di acqua e vento in alta montagna (nonostante il sottotema tragico del testo, qui Recami si diverte giustamente a prendere in giro l’ottusità burocratica e la pratica ideologica dell’autonomia assoluta predicata dai seguaci un po’ fasulli e ridicoli di Sir Baden Powell). Consonni è sicuro dell’identificazione con gli scheletri proprio perché due di essi sono uguali (i gemelli) e il terzo è più piccolo (la ragazzina) e, dopo una commossa quanto imbarazzante visita ai signori Cavenaghi in cui alcune verità sull’animo umano vengono asseverate (e cioè che le sciagure non rafforzano la solidarietà tra i simili ma l’allentano, se non la distruggono del tutto e che le comunità tanto sono più piccole tanto più sono popolate da individui poco disposti ad aiutare chi è in difficoltà), il pensionato-investigatore decide di dare alle fiamme i corpi dei tre reperti ossei per mettere fine alla penosa vicenda. Ma… il nipotino Enrico aveva già risolto il mistero. Il bambino era stato turbato in maniera forse eccessiva dalla scomparsa del suo orsacchiotto di pezza Bubu, ormai sporco e pullulante di germi, che la madre aveva lavato in lavatrice e, di conseguenza, distrutto irrimediabilmente. Il piccolo aveva fatto un casus belli della scomparsa di Bubu (Enrico “capiva che è meglio la morte di una scomparsa, che è un po’ il tema di questa storia che vi sto narrando” – annota imprudentemente l’autore con tono un po’ sentenzioso e certo ironico). Il nonno cercherà di distrarlo facendogli compiere una ricerca attenta dell’orsacchiotto mancante per occuparlo in pensieri più eccitanti ma il nipotino reagirà male e somatizzerà con un po’ di febbre. Lasciato a riposare nella camera da letto del nonno, Enrico troverà gli scheletri e li farà danzare (non si capisce se sul serio o solo nella sua mente offuscata dalla temperatura alta). Uno di essi, stretto con troppa foga, perderà alcuni segmenti di un dito che il bambino conservare in una tasca del suo cappottino. L’assenza della falange, però, se farà pensare al nonno di essere sulla giusta strada (la ragazza scout Raffaella mancava di una parte del mignolo anch’essa !), porterà il lettore a conoscenza della verità: l’ossicino detenuto da Enrico era di plastica e dunque lo erano anche gli scheletri. Ma questo segreto non sarà rivelato a Consonni: la figlia non saprà degli scheletri e il nonno non rifletterà mai sulla natura plasticata di essi. Ma ovviamente non finisce qui: la nuova avventura del nonno detective sotto veste di una indagine per conto della ricchissima signora Kakoiannis-Sforza, bersaglio preferito delle storie di squallidi rotocalchi come Chi, incombe come terza puntata.
Recami utilizza come esergo una frase inquietante di Paul Ricoeur (da Tempo e racconto 2. La configurazione del racconto di finzione): “Un modo di terminare non conclusivo s’addice ad un’opera che volutamente solleva un problema che l’autore considera insolubile”.
Ma io preferisco pensare che l’autore degli Scheletri… abbia recepito la lezione dei grandi autori ottocenteschi del feuilleton (come pure ha fatto Stephen King in Il miglio verde del 1996) e abbia voluto sviluppare come a continuing story, una storia a puntate, la sua narrazione delle vicende della “casa di ringhiera”. Solo che, scrivendo oggi e non due secoli fa, ha dovuto accordare il proprio registro stilistico all’ironia del postmoderno e farne un’opera dal sapore agrodolce e falsamente rassicurante – un’operazione quest’ultima che gli è riuscita benissimo
NOTE[1] Anche se non si occupa del progetto di scrittura di Recami, è importante citare a questo proposito il volume collettivo a cura di Vito Santoro che alla letteratura degli anni Zero apertamente si intitola. Cfr. Aa. Vv. Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero, a cura di V. Santoro, Macerata, Quodlibet, 2010, in particolare la bella Introduzione (di problemi) dello stesso Santoro. Interessante, ad esempio, questa notazione: “Vien dunque da chiedersi in quale maniera il genere romanzo,, vale a dire il genere letterario “politico” per eccellenza, visto che la sua cifra essenziale è sempre consistita nella messa in scena del conflitto tra le même et l’autre, possa esprimere le paure, il disorientamento, la sfera affettiva del cittadino globale senza restare impigliato tra le maglie della “società dello spettacolo”, cioè nello spazio della reazione, che prevede al proprio interno le manifestazioni del dissenso, dalle scritture engagé ai reportage d’inchiesta, al noir” (p. 17).
[2] F. RECAMI, L’errore di Platini, Palermo, Sellerio, 2006, p. 27.
[3] F. RECAMI, L’errore di Platini cit., pp. 102-103.
[4] F. RECAMI, Il correttore di bozze, Palermo, Sellerio, 2007, pp. 28-29.
[5] G. STEINER, Il correttore, trad. it. di C. Béguin, Milano, Garzanti, 1993.
[6] F. RECAMI, Il correttore di bozze cit. , p. 172.
[7] F. RECAMI, Il superstizioso, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 18-19.
[8] F. RECAMI, Prenditi cura di me, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 113-114.
[9] Qui l’allusione più che al romanzo di J. M. CAIN, Mildred Pierce, trad. it. di M. Napolitano, Torino, Einaudi, 20013 è al più celebre film diretto da Michael Curtiz (Il romanzo di Mildred del 1945 con Joan Crawford, Zachary Scott e Ann Blyth).
[10] F. RECAMI, Prenditi cura di me cit., pp. 244-245.
[11] Fu Leonardo Sinisgalli in un articolo del dicembre 1929 uscito sul “Corriere della Sera” a dare definitivamente questo nome ai romanzi polizieschi della collana di narrativa popolare editi da Arnoldo Mondadori e contrassegnati dai diversi colori del dorso della copertina a seconda dei generi.
[12] F. RECAMI, La casa di ringhiera, Palermo, Sellerio, 2011, pp. 30-31.
[13] F. RECAMI, La casa di ringhiera cit. , p. 194.
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Saggio pubblicato su NARRAZIONI. Rivista quadrimestrale di autori, libri ed eterotopie n. 2, anno I, II quadrimestre 2012, a cura di Vito Santoro, Milano, Ledizioni editore, 2012
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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]
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