“I delitti di violenza in famiglia denunciati non trovano in tutti i soggetti istituzionali coinvolti quella considerazione professionale e valutazione di rilevanza sociale necessarie a dare risposte adeguate alla lesione di beni primari, costituzionalmente riconosciuti, quali l’integrità fisica e psichica e la libertà di autodeterminazione.
Spesso tali delitti vengono trattati alla stregua di semplici conflitti coniugali o familiari, mentre per l’ONU ed il Parlamento Europeo sono qualificati come tra le più gravi violazioni dei diritti umani.”da Dossier realizzato dalle avvocate della rete nazionale dei Centri antiviolenza 2008 (tratto dal contributo di L.Barone, in La violenza contro le donne:profili familiari, lavoristici e penali, a cura di M.S.Ciarletta)
Questa considerazione riassume perfettamente le riflessioni alle quali mi ha condotta una conversazione avuta, con un’altra persona, nel fine settimana.
Per fare un esempio, quando la nonna mi ha raccontato una storia vera, affacciata dalla finestra, mi ha detto anche che, quando era ragazza, le donne non andavano mai dai carabinieri per denunciare violenze domestiche perchè “si sapeva” che non sarebbero state prese sul serio, come minimo. Era nota la storia dell’unica donna del paese che ai carabinieri, i quali le dicevano “signora è la vostra parola contro la Sua, se ritenete fate denuncia e poi ne riparliamo”, rispose in tono acceso “ e val’a pena si nun mu cacciati davanti, cchi mi diciti da morta ?” (e vale la pena se non me lo togliete davanti, cosa mi dite quando saro’ morta?).
Ma mia nonna ha ottant’anni ed io non mi aspettavo che scene simili continuassero a svolgersi presso le sedi dell’Arma dei Carabinieri.
Una donna mi ha raccontato di averci accompagnato la madre piu’ volte, di essere stata accolta sempre da un uomo, mai da una donna, rimasto sempre scettico di fronte a quello che lei aveva trovato il coraggio finalmente di raccontare. Mi ha raccontato che qualcuno delle forze dell’ordine è andato a parlare con il padre, per poi dire “eppure è cosi’ tranquillo, non si direbbe, è sicura di quello che ha detto?”.
“ “ La violenza domestica, strumenti di tutela penali.
Contributo di Vincenzo Giglio ( magistrato) in La violenza contro le donne:profili familiari, lavoristici e penali, a cura di M.S.Ciarletta, Atti del Convegno Reggio Calabria 19 giugno 2009, Rubbettino ed.
Desidero anzitutto ringraziare chi ha ideato ed organizzato questo incontro per avere offerto l’occasione di riflettere su un comportamento sociale che richiede ogni tipo di attenzione.
Mi è stata chiesta una relazione sugli strumenti che la legge penale pone a tutela delle donne che subiscano comportamenti violenti in ambito domestico.
Credo allora che mi tocchi anzitutto definire in che consista questa particolare forma di violenza e in quali modi si manifesti.
Per farlo attingerò principalmente ai risultati di un’indagine, aggiornata al 2006, che l’Istituto Nazionale di Statistica ha condotto sul fenomeno della violenza e dei maltrattamenti contro le donne.
Il lavoro dell’ISTAT, commissionato dal Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità, è fondato su interviste telefoniche fatte ad una platea di 25.000 donne di età compresa tra 16 e 70 anni.
Prima di addentrarsi nel dettaglio, è utile ricordare che l’ISTAT ha inteso distinguere tre distinte forme di violenza:
-quella fisica, graduata dalle forme più lievi a quelle più gravi: la minaccia di essere colpita fisicamente, l’essere spinta, afferrata o strattonata, l’essere colpita con un oggetto, schiaffeggiata, presa a calci, a pugni o a morsi, il tentativo di strangolamento, di soffocamento, ustione e la minaccia con armi;
-quella sessuale la quale comprende tutte le situazioni in cui la donna è costretta a fare o a subire contro la propria volontà atti sessuali di diverso tipo: stupro, tentato stupro, molestia fisica sessuale, rapporti sessuali con terzi, rapporti sessuali non desiderati subiti per paura delle conseguenze, attività sessuali degradanti e umilianti;
-quella psicologica ai cui fini rilevano le denigrazioni, il controllo dei comportamenti, le strategie di isolamento, le intimidazioni, le forti limitazioni economiche subite da parte del partner.
Precisato anche questo, è già il momento esporre i risultati scaturiti dall’indagine statistica di cui parliamo.
A) È anzitutto stimato in 6.453.000 il numero di donne che hanno subito nel corso della loro vita atti di violenza fisica o sessuale.
B) Nella quasi totalità dei casi queste violenze non sono denunciate: questo vale per il 96% delle donne che sono state vittime di un non partner e per il 93% di coloro che sono state vittime del partner. Questo trend rimane identico anche quando la violenza sia consistita in uno stupro, tanto che vi è denuncia solo nell’8,4% dei casi.
C) È frequente il caso di donne che subiscano più forme di violenza ed in modo reiterato.
D) La maggior parte degli atti di violenza è compiuta dal partner della vittima. Questo vale in particolare per gli stupri se si considera che nel 69,7% dei casi il soggetto agente è appunto il partner. E tanto più il partner è violento all’esterno, tanto più lo è in casa.
E) Una percentuale significativa degli episodi di violenza casalinga ha raggiunto livelli di particolare gravità che hanno addirittura portato la vittima a sentirsi in pericolo di vita.
F) È altrettanto frequente che la violenza casalinga sia avvenuta in presenza dei figli della vittima.
G) 2.000.000 circa di donne hanno subito comportamenti persecutori (stalking) consistiti in richieste insistenti di conversazioni o appuntamenti, pedinamenti, invio di messaggi, telefonate, e-mail, lettere o regali indesiderati ed altro ancora. Spesso atti di stalking si sono accompagnati a violenze fisiche o sessuali.
H) 7.000.000 circa di donne hanno subito atti di violenza psicologica nelle forme dell’isolamento o tentativo di isolamento, del controllo, della violenza economica o della svalorizzazione. Anche in questi casi il soggetto agente è prevalentemente il partner e alla violenza psicologica si accompagnano spesso le altre forme di violenza.
Sono questi, dunque, i fatti di cui dicevo in premessa ai quali c’è ancora da aggiungere qualche notazione oggettiva.
La rappresentazione non sarebbe completa infatti se si mancasse di considerare che le donne nubili, separate o divorziate subiscono più violenza delle altre. E lo stesso vale anche per le laureate e le diplomate, le dirigenti, libere professioniste e imprenditrici, le direttive, quadro ed impiegate, le donne in cerca di occupazione, le studentesse, le donne con età compresa tra 25 e 44 anni.
Valori più elevati si evidenziano anche per le residenti nel Nord-est, nel Nord- ovest e nel Centro e per quelle dei centri metropolitani (42,0%), tassi più bassi risultano invece per le donne con età compresa tra 55 e 70 anni, con licenza elementare o media, le casalinghe, per le ritirate dal lavoro e le residenti nel Sud e nelle Isole.
Riguardo ai luoghi in cui si verificano le violenze (ci si riferisce in questo caso a quelle non opera del partner), circa il 28% di esse avviene sui mezzi pubblici, in stazioni o aeroporti, il 16,8% in strada, il 14,6% in un’abitazione, in particolare l’8,9% a casa della vittima, il 3,6% in casa dell’autore della violenza e il 2,1% in casa di altri. Inoltre, l’11% delle violenze si verifica al lavoro, il 12,7% in un pub, discoteca, cinema o teatro, il 4,3% in automobile o in un parcheggio, il 4,5% in spazi aperti come un parco, un giardino pubblico, al mare, il 2,5% a scuola o negli spazi attinenti, l’1,3% in negozi o uffici pubblici e l’1,1% presso studi medici o strutture sanitarie.
Ancora: lo stato di gravidanza della vittima non pare costituire un freno se si considera che sono l’11,5% del totale le donne incinte che hanno subito violenza dal partner. Per il 50,6% di queste, la violenza durante il periodo di gestazione è rimasta uguale e per il 17,0% è diminuita, mentre per il 16,6% è aumentata e per il 15,0% è addirittura iniziata.
Altri dati di rilievo sono connessi alla percezione che le vittime di atti di violenza hanno di quanto gli è accaduto.
Solo il 18,2% delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale in famiglia considera la violenza subita un reato, il 44% qualcosa di sbagliato e il 36% solo qualcosa che è accaduto. È considerata maggiormente reato (36,5%) la violenza fisica associata a quella sessuale, o quella fisica unita a minacce (31,4%). Solo il 26,5% degli stupri o tentati stupri sono considerati reato dalle vittime. Sono considerate maggiormente un reato le violenze subite da ex marito o convivente
(32,0%) contro il 19,7% da ex fidanzato, il 7,8% da marito o convivente e il 6,8% da fidanzato.
Ancora: la violenza dal non partner è percepita come meno grave di quella da partner.
In connessione a questo tema, va osservato che la maggior parte delle vittime di violenze da non partner dichiara di aver superato l’episodio ma questo non vale più o vale di meno allorchè la violenza sia stata di tipo sessuale.
Più di un terzo delle donne che ha subito un qualche atto di violenza non ne ha parlato con nessuno. Il 36,9% ne ha parlato con amici, il 32,7% con familiari, il 9,5% con parenti, il 4,9% con magistrati, avvocati, polizia o carabinieri, il 4,2% con colleghi di lavoro. Va sottolineato che il 2,8% delle vittime (escluse quelle che hanno subito o un solo episodio di minaccia, o che sono state afferrate o spinte una sola volta, o che sono state colpite una sola volta nell’arco della violenza) si è rivolto ai centri antiviolenza o ha contattato altre associazioni di sostegno alle donne. Percentuale che raggiunge il 6,2% per gli ex mariti, ex conviventi e che è particolarmente importante perché emerge con valori significativi vicini a quelli degli operatori sanitari e sociali.
Quanto alle conseguenze della violenza subita, è stato rilevato che le donne vittime di più episodi ad opera del partner nel 35,1% dei casi hanno sofferto di depressione a seguito dei fatti subiti, perdita di fiducia e autostima (48,8%), sensazione di impotenza (44,9%), disturbi del sonno (41,5%), ansia (37,4%), difficoltà di concentrazione (24,3%), dolori ricorrenti in diverse parti (18,5%), difficoltà a gestire i figli (14,3%), idee di suicidio e autolesionismo (12,3%).
Il 22,6% ha dichiarato di stare più attenta quando esce (soprattutto le vittime di molestie sessuali), il 16,6% è diventata più fredda e più chiusa ed ha difficoltà ad instaurare relazioni (in particolare chi ha subito violenze sessuali), il 4,2% non ha più fiducia negli uomini e evita strade isolate quando esce (3,2%), il 2,9% non è più tranquilla e il 2,8% è diventata più aggressiva.
Questi sono dunque, in sintesi, i risultati messi a fuoco dall’ISTAT.
Che quadro ne viene fuori?
La prima ed ovvia considerazione è che quei dati offrono un quadro raccapricciante sia del valore che il nostro paese è disposto a riconoscere alle sue donne sia, più in generale, delle relazioni sociali che vi si svolgono.
Oltre 7 milioni di donne di ogni classe di età hanno subito una qualche forma di violenza: questo significa che il fenomeno è strutturale, endemico, profondamente radicato nel nostro tessuto sociale; significa anche che decenni di lotte femministe, di aperture sociali, di programmi politici, di iniziative normative non sono stati in grado di produrre il risultato sperato, quello cioè della promozione della condizione femminile fino alla piena parificazione con l’altro sesso.
Di più: sembrerebbe addirittura che vi sia un’evidente simmetria tra la tendenza femminile alla piena emancipazione ed alla conquista di spazi sociali, professionali, culturali e l’aumento delle manifestazioni di violenza in loro danno.
In altri termini, è come se una parte significativa degli uomini italiani si senta minacciata, o comunque negativamente stimolata, dal progresso femminile e finisca per reagire incrementando il tasso di violenza nei confronti di questi soggetti, le donne, che non comprende più, che sfuggono a schemi collaudati, che si rifiutano di aderire ai vecchi modelli sociali.
Sicchè quei decenni di lotte e rivendicazioni sembrano avere prodotto l’effetto paradossale di peggiorare la condizione delle donne. Nel senso che le donne che riescono ad affermare compiutamente la loro personalità sono vittimizzate in misura maggiore delle altre.
La prova di quanto sto affermando sta in quelle statistiche, citate in precedenza, da cui si ricava che le donne istruite sono più colpite di quelle incolte, le lavoratrici più delle casalinghe e così via.
Ma non è solo questo l’aspetto paradossale.
Ci si aspetterebbe, dato che la violenza si scatena soprattutto in danno delle donne emancipate, che almeno ne siano al riparo le donne che hanno scelto (o dovuto scegliere) un profilo più tradizionale, che si sono più allineate al modello classico moglie – madre – vestale familiare.
E invece non è così: come altrimenti interpretare i dati sulle vittime in stato di gravidanza o gli accessi di violenza in presenza di figli o comunque il dilagare della violenza domestica?
La donna dunque non è più protetta neanche quando interpreta il ruolo di continuatrice della specie e di custode del focolare domestico, quando cioè indossa le vesti che l’hanno coperta per secoli e millenni.
Sembrerebbe insomma che gli uomini siano diventati incapaci perfino di cogliere i segnali essenziali della loro stessa specie, che abbiano definitivamente rinunciato al loro ruolo di protettori della sua continuità, che insomma stiano rinnegando addirittura se stessi, accecati come sono da questa sorta di odio sessista.
Un’altra manifestazione singolare è poi quella delle donne, tante, tantissime come si è visto, che scelgono di non denunciare, di non pubblicizzare, di non comunicare la violenza subita e che talvolta, addirittura, si rifiutano perfino di percepirne la portata e la carica criminale.
Che significato può attribuirsi ad un atteggiamento del genere?
Paura, vergogna, sindrome di Stoccolma, sfiducia nelle istituzioni? Probabilmente sì, queste motivazioni contano ed anche tanto. Ma mi piace pensare, e ne sono convinto, che dietro il rifiuto di rendere pubblica la propria esperienza vi sia un istinto connaturato all’intima essenza di ogni donna. Quello di chi è disposto a subire fino ai limiti estremi della sopportazione e magari anche oltre pur di salvaguardare anche il più modesto, anche il meno soddisfacente equilibrio familiare.
È come se, in altre parole, ogni donna avvertisse su di sé la responsabilità di fare tutto ciò che le è possibile per non ridurre in brandelli quelle cellule sociali che sono alla base della nostra convivenza.
Tutto questo naturalmente ha un prezzo, ci sono cambiali da pagare che peseranno sulla vittima per la sua intera vita. Difficoltà relazionali, peggioramento della percezione di sé, diffidenza verso gli altri e così via. E dal momento che le donne sono il centro della vita di ogni essere umano, quantomeno per gli anni della sua formazione, la conseguenza è che quelle difficoltà peseranno sulla gran parte dei componenti della comunità
Non è una situazione confortante dunque ed i trend che è possibile cogliere la danno in ulteriore peggioramento.
Siamo decisamente in presenza di un male sociale e come tale dobbiamo considerarlo.
Che fare allora?
Le ricette possibili sono tantissime così come le analisi sulle cause di questo fenomeno.
Non mi soffermerò su questo, beninteso, ma mi atterrò invece allo specifico tema che mi è stato chiesto di trattare e cioè quello degli strumenti di tutela.
Lo farò tuttavia non prima di avere aggiunto, perché anche questo è necessario, qualche notazione sul profilo degli abusanti.
Si tratta di dati che traggo da fonti ufficiali e dalla mia personale esperienza giudiziaria.
Tanto per cominciare, e contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, chi commette atti di violenza non è sempre un consumatore abituale di alcol o stupefacenti o comunque un soggetto debole ed emarginato, tutt’altro. Ricerche condotte su questo specifico aspetto hanno dimostrato infatti che solo il 10% degli abusanti presenta un profilo del genere.
Ciò che invece sembra accomunare una buona parte di costoro è una sorta di insicurezza e di frustrazione personale e sociale. Si tratta in altri termini di soggetti che sono privi di significative relazioni sociali e, per ciò stesso, di forme di sfogo e di compensazione extradomestiche.
Ne deriva che quell’insicurezza e quelle frustrazioni si sedimentano esclusivamente in ambito domestico e vengono scaricate essenzialmente sui componenti del nucleo familiare, tanto più quando questi si trovino in una condizione di dipendenza affettiva o economica.
I violenti, anche questa è una loro caratteristica assai ricorrente, si adoperano con ogni mezzo per mantenere segreto ciò che fanno ed addirittura per favorirne l’oblio da parte delle loro vittime.
Tentano di raggiungere questi obiettivi attraverso una serie di attività collegate tra loro secondo un disegno unitario.
Controllano in modo capillare i movimenti, le attività ed i progetti delle loro vittime così da poter intervenire, ove occorra, per recidere i loro legami con l’esterno ed isolarle socialmente.
Talvolta distruggono gli oggetti cui le vittime tengono di più e maltrattano le bestie che vivono in casa se a quelle sono legate. Questo genera paura e la paura serve al violento.
Umiliano pubblicamente le vittime, soprattutto attraverso espressioni verbali che suggeriscono un sospetto di pazzia o di non perfetta salute mentale.
Ricorrono a frequenti minacce o ingiurie verbali.
Ostacolano in ogni modo l’autonomia delle vittime ricorrendo a subdoli espedienti psicologici che tendono, ad esempio, ad esaltare l’ostilità del mondo esterno, degli ambienti di lavoro o altrimenti sociali. Il risultato è una perdita progressiva di serenità della vittima ed un correlativo accrescimento del suo stato di tensione e di oppressione.
Stimolano comportamenti servili nelle vittime non perdendo occasione per enfatizzare il loro ruolo subordinato rispetto a quello, di comando indiscusso, che spetta al violento.
Usano i figli come arma del conflitto con il partner.
Tendono, una volta posti di fronte ai risultati del loro comportamento, a minimizzarne e banalizzarne il significato.
Così completata la parte definitoria, non mi resta che fare una rapida rassegna delle numerose fattispecie che il legislatore penale ha messo a punto nel corso del tempo per prevenire e sanzionare comportamenti come quelli descritti. Mi limiterò ad elencare gli istituti sui quali si può fare affidamento senza commentarli singolarmente poiché un’impresa di questo tipo richiederebbe una quantità di tempo largamente incompatibile con la vostra e la mia capacità di sopportazione.
Il primo concetto da evidenziare è che il codice penale, già dalla sua formulazione iniziale o per le aggiunte e modifiche legate ai mutamenti sociali e politici, contiene una gamma piuttosto vasta di fattispecie incriminatrici, tale da coprire pressoché interamente la gamma dei comportamenti illeciti che possono essere compiuti dai soggetti protagonisti di abusi domestici.
Ci si può riferire, senza pretesa di esaustività, ai seguenti reati:
§art. 570 -Violazione degli obblighi di assistenza familiare;
§art. 571 -Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina;
§art. 572 -Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli;
§art. 575 -Omicidio;
§art. 580 -Istigazione o aiuto al suicidio;
§art. 581 -Percosse;
§art. 582 -Lesione personale;
§art. 583-bis -Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili;
- art. 594 -Ingiuria;
- art. 595 -Diffamazione;
- art. 605 -Sequestro di persona;
- art. 609-bis -Violenza sessuale;
- art. 609-octies -Violenza sessuale di gruppo;
- art. 610 -Violenza privata;
- art. 612 -Minaccia;
- art. 612 bis – Atti persecutori
- art. 616 -Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza;
- art. 617-Cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche;
- art.617-bis -Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche;
- art. 660 -Molestia o disturbo alle persone.
Alle predette fattispecie incriminatrici vanno aggiunte le pene accessorie, cioè misure afflittive che conseguono al riconoscimento della responsabilità penale e si affiancano alle pene principali per completarne l’effetto sanzionatorio e la finalità di prevenzione speciale.
Quelle di maggiore attinenza al tema qui affrontato sono la decadenza e la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale dalle quali consegue la privazione di ogni diritto in tema di rappresentanza e amministrazione degli interessi e dei beni dei figli.
Ugualmente attinente è la figura dell’interdizione perpetua dagli uffici attinenti alla tutela ed alla curatela, prevista dall’art. 609 novies n. 2 c.p.
La tutela penale sostanziale è ovviamente completata dagli strumenti del codice processuale tra i quali meritano speciale menzione le misure cautelari coercitive (che cioè incidono sulla libertà fisica di spostamento nello spazio) ed interdittive (che invece agiscono nella sfera giuridica dell’interessato, impedendo o limitando l’esercizio di diritti e facoltà).
Tra le prime vanno distinte le misure non custodiali e cioè il divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.), l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p.), l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.), il divieto di dimora (art. 283 c.p.p.), l’obbligo di dimora in un dato Comune (art. 283 c.p.p.) e quelle custodiali cioè gli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.), la custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p.) e la custodia in luogo di cura (art. 286 c.p.p.).
Una speciale menzione merita poi la sospensione dall’esercizio delle potestà genitoriali prevista dall’art. 288.
Va infine segnalata, per la sua stretta pertinenza, la misura introdotta di recente in affiancamento al nuovo reato di atti persecutori (stalking).
La si trova nel nuovo articolo 282 ter c.p.p. sotto il nomen iuris di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
E questo, più o meno, è tutto.
Come si può vedere, gli strumenti di prevenzione e repressione penale ci sono ed offrono un’ampia gamma di interventi possibili.
Non sembra essere questo tuttavia il problema principale.
Quale efficacia possono avere i migliori strumenti che si possono congegnare se la giustizia non è posta in condizione di intervenire?
Che sollievo può venire dall’intervento sanzionatorio e repressivo formale se non ci si decide a riconoscere che la violenza contro le donne è una ferita inferta all’intera comunità e che tutti perdono qualcosa quando una donna è violate ed umiliata?
Vincenzo Giglio “ “
Allora per “rispondere” alle domande del magistrato Vincenzo Giglio, girerei l’osservazione delle avvocate della rete nazionale dei Centri antiviolenza, mediterei sull’opportunità delle ultime sentenze discusse della Consulta, e per non farla ulteriormente lunga suggerisco la lettura della sintesi del rapporto Urban la violenza nascosta .
(foto: opera di Barbara Kruger)