Van Gogh: la Vita come Tragedia

Creato il 01 marzo 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il marzo 1, 2012 | ARTE | Autore: Fabio Veritas Castro

Se Vincent van Gogh fu definito il “Nietzsche” della sfera artistica è chiaro che il motivo è da rintracciare nelle pagine della sua vita. Una vita travagliata e non da semplice artista vagabondo, sebbene in realtà fu così quasi fino alla sua morte. Emotivamente instabile e per certi versi “squilibrato”, intraprese un cammino di ricerca formale dopo essersi allontanato dalla famiglia che, avendo notato i suoi scarsi rendimenti scolastici, decise di mandarlo lontano, dallo zio paterno Vincent, mercante d’arte, attraverso la cui attività venne folgorato da alcune collezioni d’arte a dai musei visitati durante quel periodo. Iniziò così ad applicarsi con grande furore all’attività artistica, producendo, col tempo, un numero smisurato di disegni e tele, il più delle volte anche privi di ordine cronologico o di firma (chiaro segno del suo poco interesse verso la fama, indice di una delicatezza e di una dedizione completa all’arte fine a se stessa). Si hanno notizie di Van Gogh soprattutto tramite epistole e corrispondenze assidue con figure che costituirono per l’artista grandi fonti d’ispirazione o di sicurezza, ne sono un esempio l’amico pittore Émile Bernard, Paul Gauguin e il fratello Theo. Si nota così un malcelato bisogno d’affetto, di certezze, un vagabondare tragico dello spirito di un artista mai pago della propria creazione. Tragica è quindi l’esistenza, secondo l’olandese, e nell’ottica di una tale tragicità l’uomo medesimo è elemento e fonte di tragedia, di furor romantico, che subisce e a sua volta infligge. Van Gogh è affascinato da questa componente drammatica presente nell’uomo e nella vita, a tal punto da sperimentarla su se stesso, portando allo stremo la propria personalità. Una personalità enigmatica e spesso messa in discussione prima che dagli altri, dal medesimo artista, che ama riscoprire e ripercorrere gli inizi della propria ricerca formale, riconoscendo in Rembrandt e Frans Hals veri e propri precursori della sua “maniera di fare arte” sebbene, e questo è ormai più che una certezza, egli muova dagli impressionisti, da cui ha imparato la reciproca influenza dei colori e l’equilibrio che ne consegue. Gli aneddoti sulla vita dell’olandese sono pressoché infiniti; tra gente che racconta storie tramandate a voce e lettere di improbabile origine, tra anziani che dicono d’aver avuto in casa suoi dipinti misteriosamente scomparsi e reperti da collezione, si perdono le tracce di questo stravagante uomo, tra tutti questi dubbi storiografici però, di certo e di concreto c’è il lascito, l’eredità in tele e disegni, da cui non è difficile estrapolare percorsi semantici e sfumature sentimentali.

Van Gogh si è dichiarato in ogni singolo tratto o pennellata di ogni sua opera. Oltre che agli infiniti paesaggi illustrati, nei quali i cipressi apparivano più come delle muse che come dei “semplici alberi”, oltre ai ritratti di singole figure, rappresentati solo per il piacere di conservarne il ricordo (vedi “Il postino Joseph Roulin” o il “Ritratto del dottor Gachet”), oltre agli autoritratti, sintomo di una scissione dell’io mal vissuta, di un rigetto del tempo, di una vita quasi non voluta dall’artista, Van Gogh si riassume, per ciò che concerne l’aspetto interamente tragico della vita e dell’arte ne “I mangiatori di patate”. Nell’assidua corrispondenza col fratello Theo, Vincent espone i temi e le ragioni dell’opera (svolta in due versioni) elaborando una descrizione efficace dei colori e dei soggetti, di fatto veri protagonisti della rappresentazione. Si evince dall’opera l’intento dell’olandese di conferire ai contadini una dimensione tragica, quasi alienante, non attuale e riservata. Van Gogh prende questi contadini, arma le quinte e mette il tutto alla mercé del pubblico, mostrandoci come l’alternativa sia presente all’interno della consuetudine. I contadini intanto, godono del pasto e, incuranti delle condizioni di vita altrui, siedono attorno ad un tavolo piccolo, troppo piccolo per cinque persone. I volti non trasudano felicità. Si è però di fronte ad un atto di consapevolezza e accettazione mai visto prima: la povera gente seduta intorno al tavolo, al lume di una lampada, mangia patate servendosi direttamente dal piatto con le proprie mani, mani che hanno zappato quella terra in cui le patate son cresciute. Essi hanno dunque realmente meritato quel pasto, e poco importa se là fuori, oltre le mura di quello stanzino, oltre la terra zappata, in altri paesi, in altre città e in altri continenti, altre persone, nel medesimo istante, stiano cenando sotto uno splendido lampadario, in una prestigiosa sala, attorno ad una tavola ricolma di prelibatezze sconosciute, poiché dietro quest’ultime, assai diverse quinte, non vi è proprio nulla di meritato o, se preferite, di tragico, perché dopo ciò che si è detto e visto credo rimanga solo una lontana nostalgia per quei cinque contadini da nessuno mai visti e da nessuno mai incontrati.



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