Van Gogh si è dichiarato in ogni singolo tratto o pennellata di ogni sua opera. Oltre che agli infiniti paesaggi illustrati, nei quali i cipressi apparivano più come delle muse che come dei “semplici alberi”, oltre ai ritratti di singole figure, rappresentati solo per il piacere di conservarne il ricordo (vedi “Il postino Joseph Roulin” o il “Ritratto del dottor Gachet”), oltre agli autoritratti, sintomo di una scissione dell’io mal vissuta, di un rigetto del tempo, di una vita quasi non voluta dall’artista, Van Gogh si riassume, per ciò che concerne l’aspetto interamente tragico della vita e dell’arte ne “I mangiatori di patate”. Nell’assidua corrispondenza col fratello Theo, Vincent espone i temi e le ragioni dell’opera (svolta in due versioni) elaborando una descrizione efficace dei colori e dei soggetti, di fatto veri protagonisti della rappresentazione. Si evince dall’opera l’intento dell’olandese di conferire ai contadini una dimensione tragica, quasi alienante, non attuale e riservata. Van Gogh prende questi contadini, arma le quinte e mette il tutto alla mercé del pubblico, mostrandoci come l’alternativa sia presente all’interno della consuetudine. I contadini intanto, godono del pasto e, incuranti delle condizioni di vita altrui, siedono attorno ad un tavolo piccolo, troppo piccolo per cinque persone. I volti non trasudano felicità. Si è però di fronte ad un atto di consapevolezza e accettazione mai visto prima: la povera gente seduta intorno al tavolo, al lume di una lampada, mangia patate servendosi direttamente dal piatto con le proprie mani, mani che hanno zappato quella terra in cui le patate son cresciute. Essi hanno dunque realmente meritato quel pasto, e poco importa se là fuori, oltre le mura di quello stanzino, oltre la terra zappata, in altri paesi, in altre città e in altri continenti, altre persone, nel medesimo istante, stiano cenando sotto uno splendido lampadario, in una prestigiosa sala, attorno ad una tavola ricolma di prelibatezze sconosciute, poiché dietro quest’ultime, assai diverse quinte, non vi è proprio nulla di meritato o, se preferite, di tragico, perché dopo ciò che si è detto e visto credo rimanga solo una lontana nostalgia per quei cinque contadini da nessuno mai visti e da nessuno mai incontrati.
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