di Iannozzi Giuseppe – da Premio Strega
questa favola è per quella peste di Vany
che non si rassegna a non essere romantica
In famiglia tutto andava per il meglio: nella sua cameretta di arcobaleni alle pareti e di aurore disegnate sulle lenzuola di fresco cotone, Vanessa conduceva una vita tranquilla sempre col sorriso sulle labbra. L’innocenza non l’aveva abbandonata con la maggiore età e questo era il tratto più caratteristico e bello della giovane. Poco più che ventenne, le gote fiammeggianti di virgineo pudore, gli occhi neri incontestabile specchio d’innocenza, la boccuccia come bocciolo di rosa bagnata dalla guazza, Vanessa era proprio una piccola donna, una bomboniera cui mai le si sarebbe voluto far del male foss’anche solo per scherzo del destino; e così nessuno osava toccarla nel timore di sciuparne l’ingenuità bambina e di portarla così di peso nella triste realtà degli adulti. In paese tutti le volevano un bene da morire: i nonni si scappellavano al suo passaggio, i giovani segaioli abbassavano lo sguardo vergognosi di sé stessi, e il parroco la benediceva e a messa ogni domenica Vanessa era seduta in prima fila speranzosa come una madonnina. Vanessa viveva dunque la sua vita senza troppi scossoni, ma non per questo ignorava che non tutti al mondo erano allegri felici e sfamati. In fondo al cuore sapeva che lei era stata fortunata, mentre molti altri no. Non ci pensava, o meglio sapeva che lei, in ogni caso, non avrebbe potuto ordinare alle genti della Terra di non fare più le guerre e di mettere i fiori nei cannoni. Tutto quello che poteva fare contro le ingiustizie era di recitare una preghiera ogni sera, riconoscente al Signore per aver accordato alla sua esistenza una certa sobrietà di mezzi materiali per far fronte alle necessità di tutti i giorni quali il mangiare il bere il dormire al caldo sotto un tetto. La giovane era un animo semplice, non sentiva affatto la necessità d’ottenere il soverchio: le bastava fare un po’ di shopping con le amiche ma senza esagerare, tanto più che vestiva con sobrietà badando poco o nulla alle mode estemporanee.
I giorni trascorrevano immersi nella luce e nei colori: Vanessa non si sentiva minacciata, aveva i suoi sogni, di tanto in tanto si perdeva fra le nuvole e incontrava cherubini unicorni e santini, e folletti anche, perché se c’era una cosa di cui proprio soverchiava nella sua bella testolina bruna era la fantasia. Un giorno si svegliò madida di sudore: aveva avuto un incubo, però al risveglio non lo ricordava. In petto il cuore le batteva forte forte, anche se non avrebbe saputo spiegarne la ragione. Quel giorno tenne su un faccino leggermente cupo, destando la preoccupazione di tutti coloro che le stavano accanto. L’incubo non si ripropose e la vita felice della giovane tornò presto a essere quella di sempre. Poi un giorno, all’improvviso, ecco che in paese tutti a gridare di terrore: un orso, un orso grande e grosso, bruno e piuttosto brutto, era stato avvistato nei boschi. Un manipolo di valorosi si era preoccupato di dargli la caccia, ma senza risultato. Gli uomini erano tornati impauriti e costernati dal Sindaco riferendo che l’orso non poteva essere abbattuto, che le pallottole gli facevano il solletico, che sicuramente si trattava d’una creatura diabolica perché gl’occhi gli erano rossi come braci e la bocca era così tanto grande… Insomma si è capito che questo orso era proprio una gran brutto diavolaccio da pelare, non c’è bisogno d’aggiungere altri particolari circa la sua bruttezza e cattiveria. Gli uomini, tra colpi di tosse e affanno, riferirono anche che l’orso aveva chiesto una giovane vergine. Sentendo questa richiesta il Sindaco sbiancò, perché non è che le vergini crescano sugl’alberi e nemmeno i verginelli! Si raschiò la gola, balbettò qualche parola incomprensibile, poi scoppiò in un pianto senza ritegno alcuno, proprio come un vitello col gancio già pronto sotto al collo. Pianse davanti a tutti e a lungo, poi a un tratto gli s’illuminò il volto e gridò: “Vanessa!”
Lo stesso manipolo di uomini ch’era stato indarno sulle orme dell’orso, questa volta andò a bussare a casa della giovane. Gli uomini bussarono forte forte, gli fu aperto, e senza aspettare d’esser invitati a entrare eccoli con la preda fra le mani. La giovane imbavagliata per bene, ancora vestita del solo pigiamino rosa, se la portarono subito via in spalla, manco fosse un sacco postale, tra gli strepiti dei genitori che impotenti gridavano che gli si dessero spiegazioni. Vedendo che nessuno dava loro una risposta, i due poveretti presero a strapparsi i capelli e a lanciare certe urla che avrebbero spaccato i timpani pure al Padreterno. Il papà di Vanessa si gettò a capofitto sugli uomini che volevano portargli via la figlia: gli scivolò fra le gambe e uno gli riuscì d’afferrarlo per le caviglie. Il poveruomo stava per essere colpito dal tacco degli scarponi di uno di quei rapitori di ragazzine, quando si sentì forte l’”alt!” del Primo Cittadino. Più che mai concitato il Sindaco spiegò alla famiglia in lacrime che l’orso che minacciava il paese aveva preteso una giovane vergine. Sotto il peso della parola vergine, del suo significato, tutti ammutolirono, e Vanessa arrossì come un peperoncino. I genitori rimasero basiti e mentre guardavano la figlia che se ne andava via, rossa e imbavagliata come mai l’avevano vista, scombussolati, increduli, non sapevano se rallegrarsi per la notizia che la loro figliola era vergine o se piangere perché a breve sarebbe stata sacrificata all’orso. Mentre Vanessa diventava sempre più un piccolo puntino rosso fuoco all’orizzonte, i due genitori caddero in ginocchio e presero a pregare, o meglio a biasciare preghiere di singulti e di risatine isteriche.In un men che non si dica la giovane fu portata vicino al bosco dove l’orso attendeva la sua offerta, e ad onor del vero non è che attendesse placido placido, era difatti eccitato e non poco: per sciogliere un pochetto la tensione ballava spostando il peso del corpaccione da un piede all’altro facendo tremare di paura tutto il sottobosco. L’orso fiutò l’aria e gli ci volle un niente per capire ch’era stato accontentato, d’altro canto non è che avesse lasciato alternative agli abitanti terrorizzati del paese se non quella di obbedire alla sua richiesta.
La giovane stava in piedi coi piedini scalzi in mezzo all’erba verde. Spirava un bel venticello né caldo né freddo, però aveva addosso solo il suo pigiamino e null’altro, e particolare da non sottovalutare era stata portata lì contro la sua volontà, come tutte le vittime sacrificali del resto, ai margini del bosco perché un orso se la pappasse o peggio. Le ci volle mezzo secondo per realizzare che aveva paura, che una sacra paura così mai l’aveva provata e che con tutta probabilità quei minuti che stava vivendo sarebbero stati gli ultimi della sua vita. A questo pensiero scoppiò a piangere in silenzio già rassegnata al suo destino. Una manciata di minuti prima era al sicuro felice nel suo lettino a dormire, a sognare mondi incantati e perfetti, ma era bastato meno d’un niente perché tutto intorno a sé cambiasse: non c’era da farsi illusioni, l’orso avrebbe fatto di lei una polpettina, nessun principe azzurro sarebbe spuntato dal folto del bosco per portarla in salvo. Capì ch’era di fronte a un’inesorabile realtà, quella che l’orso aveva decretato per lei. Cadde in ginocchio con le gote rigate dalle lacrime, quando un’ombra immane oscurò il sole. Vanessa alzò lo sguardo al cielo e incontrò il muso dell’orso.
Quando rinvenne il muso dell’orso era ancora sopra di lei: poteva sentire l’alito caldo della bestia. Non era male: sapeva di miele. La poveretta pensò che doveva essersi abbuffato con uno o più favi stracolmi di miele selvatico. Ma era ben magra consolazione: al primo accenno di fame quella brutta bestia l’avrebbe fatta fuori. Piccoli singulti cominciarono a farsi strada nella gola scotendole il petto. Fu allora che l’orso aprì bocca: “Perché piangi?”
Vanessa si fece pallida pallida: l’animale aveva parlato. Non poteva essere. O forse sì!
La ragazzina tenne vivo un silenzio ostinato: non voleva cedere alla pazzia di cui credeva d’esser vittima. Se proprio doveva andare al Creatore non voleva lasciare a quel brutto orso la soddisfazione d’aver lasciato nel mondo in sua memoria l’eco della pazzia. Tuttavia di piangere non le riusciva proprio di smettere e i singhiozzi sempre più con prepotenza presero a violentarle il petto.
L’orso sospirò, così almeno sembrò a Vanessa. E parlò, di nuovo: “Sono piccole, le tettine intendo. Proprio piccole.”
E a questa uscita dell’orso l’amor proprio della giovane vergine ebbe la meglio sulla paura: “Non sono piccole. Sono proporzionate a me.”
L’orso non fece una piega. Si limitò a squadrarla ben bene. Poi con una zampa le sfiorò il viso ancora bagnato di lacrime salate. Vanessa si fece più bianca d’un fantasma e per poco non perse i sensi. L’animale si portò la zampa sul muso: l’annusò più volte, convinto e non convinto, poi tirò fuori la lingua e prese a leccarsela. “Salate”, sentenziò infine facendo una buffa smorfia.
Suo malgrado la ragazzina non riuscì a trattenersi e rise piano piano, una risata gentile come il trillo d’un campanellino.
Non riferirò a voi lettori di come Vanessa e l’orso, che aveva gettato il panico nel paese, fecero amicizia. Però vi dirò in tutta sincerità che la giovane vergine e la bestia, che si credeva esser crudele più del demonio, arrivarono mano nella mano in paese sotto gl’occhi allibiti del prete, il quale subito si segnò per perdere i sensi immediatamente dopo, del Primo Cittadino, dei genitori di Vanessa e di tutti i paesani. I più vecchi, quelli con soltanto qualche dente ballonzolante in bocca, presero a ridersela della grossa, tutti gli altri poterono solo sgranare gl’occhi incapaci di credere.
L’orso teneva la manina della giovane vergine e la teneva nella sua zampa grossa con estrema delicatezza; dal canto suo la ragazzina non pareva per niente turbata, anzi teneva sulle labbra un dolce casto sorriso di felicità, quello che la gente bene conosceva, con la sostanziale differenza che mai Vanessa era parsa così tanto angelicata.
Vanessa aveva indosso ancora il suo pigiamino, ma non sembrava in imbarazzo: forse qualche ora prima lo sarebbe stata, ma con l’orso al suo fianco era felice e basta. I vecchi del paese, ghignando, un po’ diabolici un po’ divini, non mancarono di stuzzicare la ragazzina: “Allora Vanessa, l’hai persa la verginità?” Il Primo Cittadino, nonostante fosse un uomo navigato, non riuscì a rattenere un’onda di rossore che gl’invase il volto: incollerito ma anche impaurito dalla presenza del plantigrado, alla fine si decise per un diplomatico silenzio, tanto più che l’orso – lui ne era certo – l’aveva puntato più d’una volta entrando in paese e lui come uomo non è che fosse il tipico esempio del coraggio in carne e ossa. Vale a dire: ci teneva davvero tanto alla sua pellaccia. Con piccoli passi calcolati al pelo, il Sindaco si fece dappresso alla strana coppia tremando in maniera vergognosa, ma davvero gli mancava il coraggio e tutti se ne resero conto pur senza schernirlo. In paese tutti avevano una dannata paura, fatta eccezione per le cariatidi con quattro denti in bocca e nemmeno quelli in certi casi: se la ridevano sotto i baffi, in spregio al pericolo, forse perché consapevoli che il loro tempo l’avevano fatto o forse è più giusto pensare che il tempo gl’aveva cucito addosso una saggezza che i compaesani non avevano ancora maturato. Sia come sia, il Sindaco balbettando cercò d’informarsi: “E… allora…?”
Vanessa gli regalò un sorriso di sole e con infantile gioia diede in una risatina sommessa, che alleggerì subito il cuore pesante del Primo Cittadino tremante: “L’orso viene a casa con me!”
Il Sindaco si fece statua di sale, incapace di proferir parola. Rimase in silenzio per un buon minuto lungo quanto l’eternità, dopodiché fece un senso d’assenso con la testa. E alla fine, con voce d’oltretomba, sol disse: “E’ la soluzione migliore.”
Con la manina di Vanessa stretta nella zampa orsina i due s’incamminarono verso casa. E a tutti, ma proprio a tutti, gli parve di vedere un angioletto in pigiama a piedi nudi che trascinava per un orecchio un orsacchiotto di morbido peluche.
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Premio Strega
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Premio Strega è una voluminosa raccolta di racconti di Iannozzi Giuseppe, giornalista, blogger e critico letterario. In Premio Strega sono raccolti i suoi più recenti scritti, alcuni dei quali diventati dei veri e propri cult della rete come “La prima volta che ho incontrato Wu Ming 1″, “Premio Strega”, “My Funny Valentine”, “Nozze a Natale”, “L’ultima ragazza”, “Stalin come Gesù”, “Il Prete”, “Sexual Healing”, “In the End”, “Lei, Amata”, e molti altri.