Vasco Pratolini; popolo, memoria e temi sociali

Creato il 01 ottobre 2014 da Lucia Savoia
“Fare della letteratura equivale a fare degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo”
Questo disse Vasco Pratolini in un’intervista a Ferdinando Camon e così fece lui stesso, ogni giorno, sulla sua pelle. 

Romanzo autobiografico, storico-sociale, produzione lirica, ogni cosa sperimentò questo ragazzo nato nel quartiere popolare fiorentino di Via de’ Magazzini e ogni genere, ciascun blocco cronologico della sua produzione segnò un mattone fondamentale per l’edificio della letteratura italiana. 

Cacciato dagli Scolopi perché indisciplinato, il giovane Vasco imparò presto di suo conto a leggere e a scoprire i classici, i saggi, le letture più impegnative. A lume di candela divorò i suoi “scrittori da capezzale”, i “D.” per i quali nutrì una sorta di venerazione; Dostoevskij, Dickens, Doblin, Dreiser. Di notte, dopo aver lavorato come garzone di bottega, lesse Manzoni e Jack London, Palazzeschi e Jahier. Allergico ad ogni tipo di costrizione ma con spirito da gran lavoratore continuò a mantenersi da solo scegliendo liberamente di partecipare come uditore all’università, studiando la letteratura francese ed il teatro; del resto, scrivere racconti presupponeva la conoscenza di quelle nozioni scolastiche che il suo passato da “bischero” gli aveva sottratto.

Targa in via de' Magazzini a Firenze

Quando decise “di lasciare ogni cosa, vivendo i giorni in biblioteca, pianificando le letture”, per Pratolini iniziò un percorso da sempre cercato e forse già involontariamente intrapreso che lo portò a collaborare a riviste come “Il Bargello” e “Letteratura”, a conoscere uomini come Elio Vittorini e Alfonso Gatto e a portare avanti quell’opera di lettura e traduzione divenuta per lui abitudine consolidata.

Il definitivo trasferimento a Roma  nel 1939 non intaccò quegli inizi dichiaratamente autobiografici della produzione dell’autore il quale rivivrà, ne “Il mio cuore a Ponte Milvio”, la sua esperienza di partigiano, caposettore del PCI sotto il nome di Rodolfo  Casati. 

Ma nei primi scritti il disegno autobiografico di Pratolini si articola in una struttura ben precisa, tesa a rappresentare quel proletariato al quale egli stesso sentiva di appartenere. 

Al suo primo racconto “Il tappeto verde”, la cui agile prosa ci conduce nella vita di quei quartieri popolari attigui al suo luogo di nascita, fece seguito appunto “Via de’ Magazzini”, rievocazione dell’infanzia e della semplicità assieme a “I Quartieri”

Cronache di poveri amanti, il film

La dedica al fratello Dante, morto nel ’45, di “Cronaca familiare” fu l’inizio di un lirismo in cui autobiografia e temi sociali si fondono recando un messaggio di universalità, quello riassumibile in: “il vero amore è dei poveri”, quei poveri a cui è tutto negato perchè sopraffatti dall’egoismo di una classe elitaria cinica e arrogante. 

“Cronache di poveri amanti”, pubblicato nello stesso anno, è ancora una volta affresco di quel quartiere fiorentino che è via del Corno, ma che diventa scenario delle vite del popolo fiorentino degli anni 1925-1926, quando la violenza fascista ha già allungato la sua ombra di terrore sulla città. Se il romanzo vinse il Premio Libera Stampa non senza polemiche, queste furono nulle se confrontate a quelle che seguirono l’uscita di “Un eroe del nostro tempo” e a nulla valse quella breve parentesi di divertimento scanzonato rappresentato da “Le ragazze di San Frediano”; il pubblico ma soprattutto la critica non apprezzò l’abbandono del romanzo-memoriale, circoscritto ai quartieri della Firenze popolare e non accettò la messa in scena di un protagonista come Sandrino, incarnazione della tracotanza dei nuovi rampolli fascisti che dietro il velo della legalità perpetuano azioni violente e aberranti.

Lo Scialo

Pratolini però non poteva chiudere gli occhi, non riusciva ad evitare di narrare le incongruenze della storia e i suoi sviluppi inquientanti; la gestazione di “Metello” fu lunga e il dibattito che ne seguì superò e travisò decisamente l’intento del libro e dello scrittore ma quell’eroe popolare che segnò l’avvio della trilogia Una storia italiana, rappresentò anche il passaggio di Pratolini al romanzo storico a largo raggio, a quell’analisi della società italiana proseguita poi con “Lo scialo” e “Allegoria e derisione”.
Nell’ultima fase della sua vita si dedicò a quella sorta di “vita silente” che è la poesia, ricordando i versi dell’amico Alfonso Gatto e forse riesumando alcune esperienze di giovanotto amante dei libri e ancor privo della giusta esperienza. 

Ma la qualità è caratteristica precipua della produzione pratoliniana e ne “Il mannello di Natascia” versi e prosa si uniscono a formare un’opera unica, ultima grande fatica di un autore già entrato nell’Olimpo della letteratura, degno di sedere sull’Elicona dei grandi che furono e che, senza ombra di dubbio, continuano ad essere.


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