VATTENE AMORE di Marco Rizzo

Creato il 01 agosto 2010 da Pupidizuccaro

We are so ok! © Paolo Castronovo

Un cuore rattoppato con lo scotch. Il nastro adesivo a volere pensare a un’immagine romantica. Il whiskey, se si vuole essere concreti. Non era un’immagine patetica, come potrebbe sembrare. Nella mia testa il whiskey non solo annebbiava i pensieri ma mi faceva sembrare più forte di quanto fossi in quel momento.
Giulia aveva deciso di partire chissà quanti giorni fa, e aveva deciso di dirmelo quella stessa mattina. Eravamo in fila al supermercato, alla cassa. Avremmo dovuto comprare le solite quattro fesserie. Lei apre il portafogli, sbircio dentro (giuro, assolutamente per caso) e vedo delle sterline.

Visto che il nostro viaggio a Londra risaliva a 3 anni prima (il nostro primo viaggio all’estero insieme, per inciso) mi sembrava strano che cercasse ancora di liberarsi dell’effigie su carta di sua maestà. Uscendo dal supermercato avevo rotto gli indugi e, nell’agitazione, anche le uova.
“Sterline?” le avevo chiesto. Senza alcun preambolo, senza approfondire, fottendomene di soggetto-predicato-e-verbo, sicuro che avrebbe capito.
“Ah.” Colta in fallo.
“Ah che?” Per una volta, approfittavo di un suo inciampare in una discussione.
“Vado a Londra. Ho accettato quel lavoro.”

Quel lavoro che aveva rifiutato sei mesi prima, che credevo fosse un pericolo messo ormai alle spalle, che eravamo convinti sarebbe stata la fine per la nostra storia, che avevamo ridimensionato nei confronti del nostro amore, certamente più importante di un impieguccio in una banchetta londinese.
E poi, tutti quei discorsi, sui banchieri ladri e criminali, sulle loro responsabilità nella crisi, sui suoi sogni di contribuire come possibile a salvare la sua Sicilia mettendo a disposizione della nostra terra le sue capacità. Di sinistra a parole, porca puttana – pensavo nella mia testa – venduta come tutti gli altri! Ma era coerente con il suo modo di essere di sinistra: radical chic, si dice, se si vuole essere eleganti. Solo quei film, solo quei libri, arredamento etnico e camicie di lino, al mercatino sì ma solo per comprare dal tunisino, al ristorante sì ma indiano o thai, musica rock sì ma solo se anteriore al ’72, scrittori americani purché sudamericani, enoteche sì pub no.

Onestamente, non pretendevo che mi accompagnasse in eterno nella MIA unica capacità, quella di rifilare CD usati in un negozietto del centro storico, che non avrebbe aiutato la mia terra se non con un piccolo contributo anti-inquinamento-dalla-plastica, all’insegna del riciclaggio della musica.

Però mi sentivo tradito, afflitto… abbandonato. Tutte sensazioni che sapevo come annacquare.
L’avevo piantata lì, con il portabagagli ancora aperto e il posteggiatore ad aspettare che ci dessimo una mossa, così da poter fingere di darci indicazioni su come uscire dal parcheggio e che di lì a pochi minuti gli avrebbe certamente fruttato un altro euro.
Ero rientrato nel supermercato con un passo tanto deciso che a un certo punto mi sembrava stessi marciando, avevo trovato immediatamente lo scaffale che cercavo (cosa piuttosto insolita), avevo preso una bottiglia dello Scotch più caro, senza guardare neanche l’etichetta, solo il prezzo, avevo pagato senza scambiare convenevoli o sorrisi con il cassiere, e quando ero uscito, lei era già sparita.

La bottiglia era finita alle ore 2:35. Era un momento importante, per questo avevo guardato l’orologio: da un paio d’anni, da quel problemino che mi era quasi costato un rene, la cosa più alcolica che mi concedevo era il bacardi breezer, che fino a poco tempo prima chiamavo “la birra colorata per le checche” e ormai era diventata la mia unica bevanda alcolica sopportabile.
Avevo riscoperto le gioie e i dolori dell’alcol, la spensieratezza sciocca e il cerchio alla testa perenne, l’apertura della mente e delle ghiandole salivari e il mal di pancia costante. E mi ero ricordato di quel problema ai reni, nel peggiore dei modi. Ossia con una corsa in ospedale.

Per tutta la giornata, lei non si era fatta sentire, da vigliacca quale era stata. Dopotutto, essendo sparita in quel modo non avrei avuto neanche voglia di vederla.

Purtroppo quelle troie delle parche avevano deciso diversamente. La macchina di mio cugino nonché coinquilino Pietro aveva tamponato quella della sorella di Giulia, Arianna, proprio davanti all’ospedale. Quando i due erano scesi dalle rispettive auto per lanciarsi addosso maledizioni a vicenda senza darsi neanche il tempo di riconoscersi (e dire che giurerei di averli visti pomiciare alla scorsa festa di capodanno), sembravano essersi dimenticati di me e Giulia, nei sedili posteriori delle due macchine, io a maledire i miei reni, lei a vomitare un paio di bottiglie di un pregiatissimo Nero d’Avola scolato nella sua enoteca di fiducia.
Credo che Pietro e Arianna si fossero ormai riconosciuti, ma continuavano a maledirsi tirando in ballo principi della fisica come l’inerzia o la forza di gravità per giustificare le proprie ragioni. Alla discussione aveva preso parte il posteggiatore (giurerei lo stesso del supermercato) e una decina di curiosi, la metà dei quali si improvvisava perito assicurativo e l’altra metà cronista.
Io mi ero preso di coraggio e con la mano al fianco destro, come se quel cazzo di rene dovesse scapparsene, ero uscito dalla macchina e mi ero avvicinato allo sportello del lato passeggero della Punto blu di Arianna cercando di trattenere il vomito.
“Andiamo”, dissi a Giulia prendendola per mano.

Eravamo stati condannati entrambi a una notte di reclusione al Policlinico e a una sgradita lavanda gastrica, ma avevamo trovato le forze per incontrarci intorno a mezzanotte davanti a una statua di padre Pio in giardino così mal scolpita che somigliava a Obi Wan Kenobi.
“Sei un cretino,” fu l’affettuoso bentrovato.
“Sei una stronza. Vattene a Londra, a Timbuctu, a ‘fanculo…”
Interruppe il mio elenco di località inventate e non con un abbraccio, sussurrandomi i suoi ripensamenti e i suoi sensi di colpa, per poi baciarmi sotto lo sguardo castigatore di Obi Wan Kenobi. I nostri aliti puzzavano ancora un po’, ma cercammo di non farci caso.

Marco Rizzo, giornalista professionista, è anche traduttore e sceneggiatore di fumetti. Fondatore del sito Comicus.it, ha scritto Ilaria Alpi, il prezzo della verità (Becco Giallo, 2007, disegni di Francesco Ripoli), vincitore del Premio Micheluzzi come “Miglior Fumetto” al Napoli Comicon 2008. Il suo ultimo libro è Peppino Impastato, un giullare contro la mafia (Becco Giallo, 2009, disegni di Lelio Bonaccorso), vincitore del Premio Siani, del Premio della Satira di Forte dei Marmi e del Premio Boscarato (miglior sceneggiatura). Così lo disegna Claudio Stassi.


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