Mentre ascoltavo il rumore di sassi gettati nel silenzio, la creatura si mosse in un gorgoglio di stelle. Domando a mia madre se le pareti del tempo hanno un senso, le chiedo perdono, ma il coraggio di un sogno uniformato non mi si addice davvero. Sono come un mare perfido perché rinchiuso nei lembi del velluto grigio, di una terra senza luce, che esiste solo nei ricordi di un alieno bambino e, vorrei essere l’altrove, colmare l’abbandono. Prego in silenzio un Dio di convenienza, riposte per il tepore della notte le maschere nel baule delle illusorie e sgargianti fogge. O semplici foghe? Ritrovo sempre qualcosa di vecchio in ogni luogo e in ogni
Mente
Nel sogno
Forse mi segue o sono io a portarmela dietro?
Scopavo in maniera astratta a volte. Mio nonno faceva il vaccaio ma era un conte, mi raccontava della guerra, delle donne e non ho mai capito se gli fregasse qualcosa. Adesso sta in pensione, è vecchio e zoppo, dice “sai Davide niente è peggio delle offese della senescenza” e io davvero vorrei potergli dare ragione. La mia lampadina palpita e mi ricorda un poco quei film noir in cui lo scrittore scrive ignaro, alle spalle l’assassino che sferra il suo colpo e lo lascia a terra a versare sangue, sul bellissimo tappeto persiano così finemente lavorato. Un assassino lo conobbi in un altro tempo: ricordo che divise quei poveri creatori in mostriciattoli erranti, vendicativi, scaltri e senza patria o terra madre. Ho volato su una gola in mezzo a un deserto rosso fuoco danzante e mi sono visto affogare in mezzo all’eternità del nulla. Ho incrociato i miei occhi coi miei e poi ho continuato a incrociare e a incrociare e a incrociare
Altre parti
Dei miei corpi
Si incastravano perfettamente
I continenti
Tornavano
La grande Pangea.
Mi aspetto come si desidera l’odore della pioggia. Ieri mi sono seduto su una roccia e ho immaginato un regno dipinto con gli ultra-colori che non si vedono. Regno in cui non si proferiva parola pena la morte, il suono dei simboli sciocchi dell’uomo avrebbe fatto cadere la volta del cielo di carbonio cristallizzato, avrebbe reso cenere i pascoli, annegato le creature del mare, avrebbe diviso le cellule felici del corpo di Dio. Ma accadde e fu morte. D’improvviso la più bella fra le lame nate per conficcarsi nell’anima, domanda sicura: “cosa
Posso offrirti
Per farti lasciare il paradiso?
La ferita
Di un sogno nato dai ricordi di un altro ricordo vivo?”
Adesso credo che lascerò questo infinito schizzo di parole pericolose al mio regno, al desiderio del nulla, al volere del tempo e alle prigioni delle sue pareti invincibili.