Queste righe sono dedicate a quelle testimoni di pietra che non hanno l'onore di una croce, di una citazione in latino, che non furono edificate per la gloria di Dio e l'onore di una comunità, ma solo per la sussistenza di una o più famiglie, per cercare di strappare pascolo e terra fertile alle pendici di un monte. E che ora vedono piode incerte giocare con la legge di gravità e rampicanti rigogliosi abbracciarle fatalmente.Domenica scorsa, 8 marzo, il tiepido sole primaverile mi ha portato a posteggiare al Sacro monte Calvario di Domodossola e a imboccare a piedi la strada per Crosiggia, poi da qui tra terrazzamenti e boschi, primizie di primule e boschi glabri, son salito ad Anzuno. Con un occhio volto alla disordinata piana da Beura a Villadossola, e l'altro alla maestosa corona che cela la val Grande. Dalla frazione devota a Sant'Antonio è un facile ritorno al luogo caro a Rosmini, salendo alla Tensa per poi scendere a San Defendente. Le piccole chiese incontrate sul cammino meriterebbero una miglior narrazione. Mi incuriosisce il loro essere orientate in modo un po' anarchico: a Crosiggia l'abside è a nord ovest, ad Anzuno e San Defendente a nord est, mentre il Calvario l'ha a sud est e più sotto San Quirico è in posizione analoga, solo un po' più orientata a est: la più antica, la più tradizionale). Dell'interno occorre tacere davanti a portoni chiusi e qualche scritta dipinta nella lingua di Cicerone. Anche se va dato atto che la fede e l'amore delle comunità locali hanno mantenuto nei secoli un particolare decoro a questi edifici di culto.
La mia attenzione, assieme alla voglia di immortalare in più scatti ciò che avevo davanti, mi è venuta però di fronte ad altre due reliquie del passato. La prima la si incontra imboccando la strada consortile che da Quartero sale ad Anzuno. E una vecchia casa, che appare imponente se confrontata con quelle vicine: tutte ristrutturate. Lei invece mantiene un ciuffo verde, una frangia di vegetazione rigogliosa adagiata sul tetto, dalla parte sinistra. Mentre quella destra è coperta di rovi. Si trova in una posizione soleggiata. Più sotto una vite, che da anni pare non potata, è adagiata su una sorta di pergolato. Nel vederla viene da interrogarsi: chi la costruì? Quando? E perché la sua sorte è stata diverse dalle vicine sorelle?La seconda costruzione che ho voluto fotografare la si incontra alzando lo sguardo poco sotto San Defendente, lungo il sentiero che scende al sacro monte. Si trova su un piccolo poggio, all'inizio di una radura in mezzo al bosco; a guardarla di lato può sembrare una chiesa, perché il ballatoio e le finestre sono concentrate sul lato a sud. Anche lei ha iniziato a essere abbracciata da rampicanti, il tetto appare sul punto di crollare in un paio di punti. Nel sottoscala sono accatastate bottiglie vuote e rifiuti di qualche festa nel bosco. Quella foresta c'era anche quando fu costruita? oppure attorno a quella casa vi erano pascoli e il sole non doveva filtrare tra le fronde per entrare dai vetri delle finestre? Più sopra, a san Defendente molte costruzioni sono state recuperate, lei no. Lei è rimasta intrappolata, come la Bella addormentata, in un mondo di edera. E mi assale quell'inspiegabile sensazione che non m'accade nelle case, anche più antiche, che hanno visto l'intervento di restauro. E' la sensazione che le storie di chi vi ha vissuto formino una specie di patina tra intonaci e pietre che si potrebbe raccogliere e, con una macchina fantascientifica, trasformare in un film a tre dimensioni davanti ai nostri occhi.
Queste due vecchie signore di pietra appaiono senza nome. Nomi che magari sono invece familiari ai residenti nelle vicine frazioni domesi. E forse per una generazione o due, qualcuno si ricorderà chi le abitò, il nome o il soprannome di quella famiglia. Ma a differenza delle chiese, i cui nomi resteranno negli archivi, per le due testimoni di pietra resteranno al massimo dei parallelepipedi sulla mappa catastale, lotti numerati come a battaglia navale. Quella cultura materiale che le creò, figlia della civiltà della fatica e dell'economia della sussistenza, la si vuole talvolta mostrare in qualche gerla esposta in qualche stanza di qualche museo di qualche pro loco. Ma senza percorrere le distanze che superarono quelle donne e quegli uomini chini. Senza respirare l'umidità e il fumo di quegli inverni, è come cercare di far capire il volo, agitando una piuma di struzzo.Andrea Dallapina.
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