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Vecchio Cinema Paradiso

Creato il 24 luglio 2014 da Cultura Salentina

Vecchio Cinema Paradiso

24 luglio 2014 di Titti De Simeis

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Un film. Luci soffuse e porte aperte ad una sera d’estate.  Il vento tiepido fuori muove, appena, le foglie degli alberi. Un bicchiere di birra ghiacciata e silenzio.

Inizia. I titoli scorrono.  Sulle prime immagini i nomi degli attori. La musica è sottofondo alla voce narrante che introduce la trama.

Anni Cinquanta. Una Roma del dopoguerra appena svegliata dalla miseria ed appena entrata nel futuro italiano del Neorealismo. Una cultura tutta in divenire in un’economia sorridente ed ottimista. Una vita di valori semplici, ancorati ad un passato che aveva messo paura e di cui si sentivano ancora i brividi.

Riprese per strada e scene d’interni.  Un equilibrio tra sentimenti,  fantasia e verità. Quando la tv era compagna e maestra,  insegnamento ed evasione.

Un film che ancora oggi fa dimenticare tutto intorno a noi. Ci accompagna nelle vie di strilloni e bambini scalzi, di panni stesi tra i balconi dei vicoli, di profumi di pane e ragù della domenica, di amori spiati dietro finestre socchiuse. Di mestieri semplici su biciclette rubate, di auto lente a colori misti, di pochi soldi per grandi felicità, di gesti e ricordi che imprimevano l’anima.

Davanti allo schermo. Addolciti in sorrisi nostalgici guardiamo scorrere le scene e le abitiamo come fossero ‘casa’. Gli attori hanno un’aria familiare che ci mette tranquilli, le loro storie sono trama che avvince e distende. In quelle vite ed in quegli interni noi ci ritroviamo, ci sediamo, ci addormentiamo, ci alziamo a prendere l’autobus il giorno dopo, con i libri sotto il braccio o la lambretta che sbanda, in un taxi napoletano o in una stazione di carrozze in partenza.

In quelle immagini vogliamo esserci, restarci, respirare mentre il cellulare a fianco a noi riceve messaggi, la lavatrice centrifuga i nostri sudori e il computer scarica l’ultima applicazione, imperdibile.

Noi siamo lì, di fianco al regista o nei salottini di vimini sulle terrazze del corso, nelle cucine tra pentole di rame e la caffettiera che sbuffa, con un bimbo che piange e una radio che canta tra le stoffe di una sartina innamorata. Ci ritroviamo a ridere delle smorfie di un comico vestito di stracci, di un giornalaio che impara la vita da un conte; a sorridere di una principessa che evade la sua corona e a commuoverci di una madre che la vita la fa per non morire.

Quel bianco e nero ci ha visto bambini, ci ha cresciuto, ci ha vestito di pane e zucchero, ci ha allungato le bretelle e le gonne, ha consumato con noi i braccioli del divano di casa, seduti con le gambe a penzoloni,  a sgranocchiare biscotti.

Quel film, oggi è un richiamo, una stanza in cui tornare, una musica ritrovata, un calore dimenticato ma, ormai, fuori tempo. Ci sentiamo accolti, vivi, sereni in quel mondo. Un mondo di belle cose, grandi valori, emozioni, promesse, fiducia, sogni, sacrifici premiati.

E il bianco e nero ne è pudore, di colori da immaginare.

L’Italia in quel film era un letto di lenzuola bianche e di strade sterrate, di scarpe sgangherate e di trecce da sciogliere al buio. Era una casa di poco pane ma grande coraggio, di tanta paura ma mani forti.

In un film di altri tempi ci sentiamo persi. Inevitabilmente.

Nei titoli di coda ci abbandoniamo a commozione e ad un ‘ferma immagine’ chiediamo di non chiudersi, di non smettere nella parola ‘fine’.

La vita dei nostri giorni non ha la stessa attesa di un film in bianco e nero. E i nostri ‘ferma immagine’ restano ai margini di un quotidiano a colori che straborda di ogni cosa ma sente i morsi della fame, digiuno di ogni autenticità.


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