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Riparato a Lugano, in precipitosa fuga dal ducato estense, Antonio Panizzi scriveva: «Vado in Francia o Spagna e vivrò povero, onesto e liberale. Me ne rido, io, della porca Fortuna: io farò disperar Lei, non Lei me». Lo scriveva sul finire del 1822 e di lì a qualche mese avrebbe scelto l’Inghilterra, per Liverpool e poi Londra, dove in breve sarebbe diventato il ricercatissimo conferenziere che sul Rinascimento italiano incantava sale stracolme, finendo per assumere la direzione del British Museum. Finirà i suoi giorni nel 1879, a 84 anni, appagato e sereno tranne che nell’inestinguibile odio per «quel frate porco di Pietro Giordani» che lo aveva segnalato come carbonaro costringendolo all’esilio. Sull’Italia, che intanto conquistava l’unità, non si faceva troppe illusioni, e anzi disperava. Lo fecero senatore nel 1868, e tornò, guardò, e scrisse: «Mi vergogno d’essere italiano vedendo come vanno le cose… Vanitas vanitatum et omnia vanitas». Un caratteraccio, il Panizzi: collerico, sboccato, un fondo umbratile, un’insaziabile sete di giustizia, del tutto incapace di chiudere un occhio e con l’altro vedere il buono che c’è anche nel peggio del peggio, volendolo trovare. Ecco, potremmo dire che era uno di quelli che non vogliono trovarlo a tutti i costi, il buono che c’è anche nel peggio del peggio.Non ho perfetta comprensione del come mi sia saltato in mente di parlare del Panizzi. Ero dinanzi alla pagina bianca e l’intenzione era di commentare la cronaca politica di queste ultime settimane. Da qualsiasi bandolo tentassi di sbrogliare il gomitolo, la voglia era di tirare, strappare o lasciar perdere. Allora ho pensato a quel tale che con proficua saggezza rampognava gli intransigenti che «non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno». Chi sono io - mi son detto - per mandarlo a cagare? E allora mi è venuto in soccorso il Panizzi.
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