Film bislacco.
Non brutto, che poi si potrebbe stare ore ed ore a piantare i paletti della bruttezza, perché sebbene sia un’opera prima (Lim Woo-seong ne è il regista, sudcoreano) è avvertibile la ricerca minuziosa dietro la pellicola tutta (nei fatti questo film ha impegnato per ben 4 anni l’autore), né povero di argomenti perché nel calderone vengono mischiati diversi ingredienti che probabilmente però peccano di amalgama.
Vegetarian (2009) è un film squilibrato nel senso che non ce la fa a mantenere una coesione dall’inizio alla fine. Procede per scompartimenti stagni, avendo sì come trait d’union la malattia, ma essa non è particolarmente ficcante a parte gli ultimi minuti, e così si ha un inizio tutto incentrato sull’idiosincrasia della donna verso la carne. Aldilà dell’abusato trauma infantile come origine del disturbo che almeno qui è una rapidissima parentesi senza troppi lustrini, questa forma di vegetarismo viene vista come una deviazione dalla normalità, tanto che il burbero padre prende a schiaffi la figlia che si rifiuta di ingollare della carne durante una cena di famiglia. Intuibile, forse, la rappresentazione di una forma razzistica verso ciò che è diverso, che non è capito: Yeong-Hye non si nutre di “animali” e viene come ghettizzata, irrisa dal padre davanti ai parenti, abbandonata dal marito.
Poi si passa al livello successivo, legato sì alla solitudine, all’estromissione di cui è protagonista la ragazza, che assume una certa carica d’importanza e di interesse ma che è un pochino scollato dalla natura del film. Perché quando il cognato propone a Yeong-Hye di prendere parte attiva nelle sue composizioni pitturandole il corpo di fiori, si spalanca tutto uno scenario sui confini dell’arte. Il modello precettato difatti si rifiuta di fare sesso con la ragazza poiché non è un attore porno, e quella, aggiungo io, non sarebbe stata ovviamente arte ma, appunto, pornografia. La riflessione è degna, ma inserita in un film dove il macro argomento è quello della schizofrenia e quindi della malattia in generale con tutte le sue angosciose derive, non si lega granché. Anche perché questo intermezzo pittorico non ha strascichi significativi sulla vicenda: la protagonista era disturbata prima e lo sarà anche dopo.
Ciononostante la scena clou dell’amplesso fra i due amanti “per caso” è lodevole, soprattutto la prima ripresa da lontano in cui la mdp senza esibizione alcuna dei loro corpi sfugge piano piano alla sua visione. Il secondo amplesso si ricollega al discorso sull’arte che qui si appaia al sentimento. Il cognato ha voluto dare vita a una sua composizione oppure ha semplicemente assecondato i bisogni della carne? Non lo sapremo, o forse sì e la risposta sta nel mezzo. Ma su come questa digressione non abbia implicazioni concrete lo si nota da come poco dopo la scoperta del tradimento da parte della sorella il cognato sparisca letteralmente dalla diegesi.
L’attrice che impersona Yeong-Hye, Chae Min-seo, fornisce una convincente prova da Actors Studio avendo perso parecchi chili per calarsi nella parte. Il risultato è evidente, la ragazza è spaventosamente magra e l’espressione costantemente attonita la rendono credibilmente una persona malata, non solo fisicamente.
Film bislacco quindi, disarmonico e sproporzionato. Le attenuanti per il suo essere opera d’esordio ci sono tutte, l’imputato Lim Woo-seong è perciò rinviato a giudizio.