Leggendo il libro di Antonio Padula, mi hanno colpita subito i versi della prima poesia: “Ma io non cerco una metafora perfetta” e “E mi lascio catturare dall’inessenza”.
Versi separati da un punto, dunque due affermazioni in apparenza slegate non solo perché fanno parte della stessa poesia ma anche perché bastano a se stesse. Prese da sole sono vere entrambi eppure quel “ e mi lascio catturare dell’inessenza” sembra una diretta conseguenza dell’affermazione precedente, ossia Ma io non cerco una metafora perfetta. Se mi sono soffermata su questi due versi è perché in essi sento una definizione di poesia che sottende a tutto il libro, al nocciolo della sua tematica. Poesia che nell’inessenza cerca l’essenza, attraverso metafore imperfette perché noi esseri umani e questo Antonio Padula lo sa, lo sente sulla propria pelle, brancoliamo nella realtà, pure se questa è visibile e ci sta continuamente sotto gli occhi, anzi forse proprio perché è visibile e lascia tracce, indizi che non sappiamo decifrare se non appunto attraverso metafore imperfette. Così il ronzio di un elicottero nel cielo può diventare la metafora del vociare indistinto del mondo, eppure nello stesso tempo è qualcosa di concreto che attraversa il nostro silenzio e lo riempie di quell’inessenza sentita dal poeta proprio come un ronzio al di sotto delle cose. Ronzio che ce le rende confuse, incomprensibili e forse per questo familiari, come ci è familiare il battito del cuore che portiamo in petto e il cui suono, la cui voce spesso non sappiamo interpretare, tradurre. L’essenza che egli cerca di conquistare gli appare sfuggente e il poeta dubita della sua esistenza, così che essenza e inessenza si sovrappongono. La quotidianità, tuttavia, offre quegli indizi cui accennavo prima, per cui la carta ingiallita ritrovata in un libro in cui si intravedono dei segni ormai illeggibili sono i reperti di una realtà che ci sta di fronte ma di cui riusciamo ad intravedere solo la fisionomia mentre i tratti del suo volto ci sfuggono. La poesia per Antonio Padula, come egli stesso afferma è “prendere nota” di sé e così facendo crea un dialogo tra sé e sé e tra sé e le cose. perché l’io, il sé del poeta è sempre un io e un sé in rapporto, in relazione. Relazione che si snoda all’interno di una quotidianità riconosciuta e vissuta spoglia di quella connotazione negativa che a volte assume, come di qualcosa che ci distoglie dalle cose più alte e nobili cui la nostra anima aspira.
La quotidianità, infatti, (e invece) è il mondo visto e praticato da un soggetto nei suoi normali contesti di vita, quelli in cui avviene “ciò che si fa tutti i giorni”. E che proprio per questo sono i contesti cui ciascuno si riferisce per giudicare la qualità della propria vita, per confrontarla con le proprie aspettative di benessere e, nel caso, per decidere se e come agire per migliorarla. La quotidianità è anche il luogo in cui è possibile rompere con le abitudini, con la routine e creare uno spazio altro che diviene altro proprio in virtù della ripetitività del quotidiano.
Ho notato che la parola “nulla” ricorre più volte in questo libro. Per molti filosofi essa non è un sostantivo in quanto, sostengono, non c’è alcun oggetto a cui si riferisce, mentre altri ritengono che, basandosi la nostra comprensione del mondo sul notare le assenze e le mancanze (allo stesso modo in cui si notano le presenze) “nulla” e i termini correlati servono ad indicare queste. Il nulla che ricorre nelle poesie di Antonio Padula sembra essere un “navigare tra l’oscurità e l’anima”, un navigare nel mutismo del mondo, un orientarsi in un cielo privo di stelle con il solo aiuto di coordinate legate alla capacità umana dell’ironia che in qualche modo allevia il senso d’angoscia che spesso si prova davanti al mistero della vita e ancor più davanti al mistero della morte.
Eppure nella poesia di Antonio Padula c’è sì il senso della caducità, del passare del tempo, dell’inevitabilità insita nell’essere terreni e del sentirsi in balia di forze che non siamo in grado di governare, ma il tutto è espresso con grande tensione erotica e mi si consenta questo termine che potrebbe apparire fuori luogo, ma non si può negare che il vissuto emotivo che emerge dalla poesia di Antonio sia pregno di una corporalità sentita visceralmente, così come il corpo è sentito sì un tutt’uno ma anche come insieme di organi, corpo che rende possibile una reciprocità tra l’anima, la psiche e le cose che non sono oggetto di desiderio, che non generano concupiscenza, semmai la nostalgia di un rapporto primigenio in cui le cose sono ancora piene di purezza, quella che l’essere umano può contemplare solo a sprazzi che appare e poi subito sparisce e mi è piaciuta molto l’immagine racchiusa nei versi:
Eppure non riesco
a perdermi d’animo.
Allineo CD negli scaffali
e penso ad un impianto
d’aria condizionata per l’estate.
Come se attraverso il gesto, l’atto di sistemare i Cd di tenerli tra le mani, di toccarli, e si conferma qui il concetto di tensione erotica, egli ritrovi il suo equilibrio, il suo modo di stare nel mondo in pace con il mondo e altri esempi ci sono in tutto il libro che vanno in questa direzione. La radiolina nella solitudine di una stanza d’albergo, un libro tra le mani, una sigaretta e ancora la sensazione del proprio corpo steso su un letto o “astrarmi con la cuffia, e godere il calore del sole che mi scalda il braccio.” Quasi degli oggetti transizionali, dei ponti che proprio come accade nel bambino, gli permettono di adattarsi ai cambiamenti e di superare le difficoltà, le illusioni e le disillusioni su se stesso e sulla vita. Vita che gli fa dire “Avrei bisogno di un linguaggio turpe avrei bisogno di un linguaggio angelico per esprimere la vita.” E mi sembra che questo suo desiderio sia stato accolto in quanto il suo linguaggio mai turpe e mai angelico è una sintesi di entrambi, è il linguaggio della quotidianità che reinterpreta se stessa, che si rilegge e si ricostruisce.
Vorrei concludere con un altro bel verso che mi ha colpita e che trovo esatto ossia Essere conniventi con l’inconcludente emozione che s’interroga. Altra pregnante definizione di poesia: emozione che s’interroga eppure inconcludente perché sempre c’è da ripartire, da riprendere il viaggio, sempre una nuova emozione torna a visitare il poeta, ad interrogarlo, a chiedergli conto di sé e il poeta pronto e ben felice di rispondere portando la penna al foglio.
Lucianna Argentino
Ti piazzi
nei pochi sogni,
in ogni via
che tento.
Disilludi.
Ma io non cerco una metafora perfetta.
E mi lascio catturare
dall’inessenza.
***
Nella mia stanza come in ogni stanza
dell’hotel
un televisore.
Io invece vorrei sentire la radio,
un po’ di musica,
arcaicamente disteso
sulle coltri.
La luce del corridoio è di quelle
che dopo un po’
si spengono da sole.
Accendo la mia radiolina
con gli auricolari e le batterie.
Ma qui Radio 3 non si prende.
Inutilmente cerco qualche stazione
interessante.
Sempre più arcaicamente disteso
mi addormento.
***
Tacere.
O almeno dire l’essenziale
ben sapendo che è nulla
anche quello.
Mi culla
questo ronzio d’elicottero
nel cielo di Roma.
***
Un foglietto,
anzi una strisciolina di carta ingiallita,
è rimasta nel libro di Ginsberg,
Jukebox all’idrogeno.
C’è qualche
segno sopra che non so più decifrare.
Non ricordo se l’ho lasciata
per una lettura incompiuta
o se è traccia
di qualcuno che l’ebbe
in prestito da me.
Coi suoi strani segni
la riutilizzo.
Guida a cui tornare
tra una sosta e l’altra.
***
Mi accorgo
improvvisamente
di essere intriso di debolezza.
Come vinto da forze in fondo secondarie
ma inevitabili.
Sembra quasi un ricominciare,
come tanti anni fa.
Sconto la presunzione
di aver avuto aspirazioni.
***
Avrei bisogno di un linguaggio turpe
avrei bisogno di un linguaggio angelico
per esprimere la vita.
Ma sono solo capace di dire
questo retorico nulla.
Sono stracco e cencioso
di fronte
alle profezie,
alle spirali evolutive.
***
Indago
la letteratura la musica la scienza.
Salto da un filo all’altro.
Cerco,
quasi sempre deluso,
ma insisto:
non so far altro.
E intanto lotto
contro il decadere del sentire,
per il suo discernere e scoprire
come un inconscio riconoscere
***
Un riposo
libero da paure e da ansie.
Sto imparando questo esercizio.
Se prendo tra le mani un libro,
dopo aver vagato tra le righe
chiudo gli occhi e,
disincagliato,
navigo
tra l’oscurità e l’anima.
***
Come è alto e frastagliato questo cielo,
oggi, dopo una notte insonne.
Siamo stati a parlare fino alle tre:
i tuoi racconti, necessità di «andare
oltre… ».
E quanti baci e carezze,
appena usciti da casa di Gino,
dietro il primo angolo:
«non ti conoscevo così».
Com’è celeste questo cielo,
oggi, attraversato da un aereo,
lontano.
Quanti equivoci nei gradi
dell’essere,
quante maschere nei tuoi
disegni.
***
Mi tocca essere,
fra i disturbi
di stoviglie cadute nella mensa,
e la noia manifestata
dal vicino
per il film che, lento,
mi cattura.
Mi tocca,
fra i disturbi del collega,
compagno di stanza,
astrarmi con la cuffia,
e godere il calore del sole
che mi scalda il braccio.
Mi tocca,
scoprire la bellezza assoluta
nelle note che mi invadono,
fra le voci di corridoio.
Mi tocca essere,
un uomo della civiltà.
***
Potrei essere anch’io, così,
senza senso,
in una sfrenata rottura
di ogni consistenza.
Nel vuoto di ogni parola,
nel ricercato equilibrio di ogni tonalità
che ognuno appresta alla propria voce,
per essere, così, convincenti.
Eppure sapere,
con apprensione, un parlare indecifrabile.
Essere conniventi con l’inconcludente
emozione che s’interroga.
Antonio Padula è nato nel 1950 a Bisignano (Cosenza). Vive a Roma.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: “Con lucida logica” (Stampa Alternativa, 1979), “Un ludico equilibrio” (Bastogi, 1995), “Quasi convinto” in “Prove d’autore” n. 1 (Insula, 1999), “La morte allusiva” (s.e., 2000), “Nessuna orma segnava la neve” (testi degli anni ‘70, Il Foglio Letterario, 2001), “Con altre parole” (in italiano e svedese insieme a testi di Ida Andersen, Il Foglio Letterario, 2008).