Soltanto nominare il nome di questa epica saga mi eccita, sei film che hanno segnato la storia del cinema (d’azione) e il mio cuore. Ci sono stati alti e bassi negli anni ma posso concludere che l’ultimo, Fast and Furious 6, ha riacceso la scintilla dell’amore facendo battere all’impazzata i miei pistoni.
Il sesto capitolo è la fine della seconda trilogia: i primi tre film trattano di gare di automobili ma le storie sono abbastanza svincolate tra di loro, in particolare il terzo (Fast and Furious: Tokyo drift) sarebbe il sesto film in ordine cronologico. Seguono il quarto, il quinto e l’ultimo che alla sua conclusione riprende una sequenza del tre svelando particolari piccanti per il settimo capitolo, l’inizio della prossima trilogia. La buona notizia è che non dovremo aspettare tanto per rivedere Vinny e la sua combriccola, a luglio dell’anno prossimo uscirà il prossimo capitolo; The Rock forse non ci sarà, causa probabile spin-off. Non parlerò delle anticipazioni perché non voglio rovinare la sorpresa a tutti i sostenitori, tuttavia voglio comunicare il mio apprezzamento.
Il film inizia nel modo migliore: una sequenza che mostra una gara di automobili e Vin Diesel che torna nei panni del mitico Toretto mentre martella il suo pistone come se non ci fosse un domani.
Il bello di Toretto è che pur non essendo grosso come Hobbs (Dwayne Johnson) soddisfa ogni genere di donna, anche la sua ex fiamma che si pensava fosse stata uccisa dalla mafia messicana, ed invece è viva ma senza memoria. Macchine e donne sono subito sul piatto, già questo renderebbe il film magico, ma dopo pochi minuti arriva il poliziotto più pompato di anabolizzanti che ci mostra i famosi cinque minuti di terrore portando la perfezione assoluta. I suoi interrogatori mitigano efficacia, violenza e umorismo; i dialoghi mostrano già lo spessore che ha contraddistinto gli sceneggiatori di questi anni.
Non posso soffermarmi su ogni singola scena anche se vorrei davvero tanto, credetemi; vi citerò Vin Diesel che davanti al classico stallo alla messicana vede svanire la promessa ricevuta, non si scompone e risponde:“Quelle parole (amnistia e grazia) se ne sono andate quando siamo nati!”. Il momento è stato magico, è partito l’applauso e penso che siano tanti un paio di bambini in quel momento. Odio l’applauso al cinema, nemmeno alla fine del film d’autore, ma in quel caso l’atmosfera era così calda che le nostre mani avevano deciso di non fermarsi davanti alla caparbietà di questi ragazzi.
La storia continua per due ore, ma non ci si annoia un momento; il gruppo aiuta la polizia a catturare un pericoloso criminale che era della CIA, salvano la bella smemorata di Dom, salvano la donna di Brian, distruggono un autostrada, fermano un carrarmato e bloccano, rigorosamente con delle macchine, un aereo da trasporto militare russo. Dal film sembra che la Giulietta spinga più forte di un Leopard 1A5 (un carrarmato superpesante, ndr).
Il film è assolutamente da vedere, questo perché non ha paura d’essere quello che è: negli anni questa saga si è ritagliata il primato del genere automobilistico d’azione; The Italian Job può andare su giù per lo scarico di fronte ai muscoli dei personaggi. I suoi limiti non risiedono nella sua banalità, gli spettatori non vogliono pensare (nelle scene di gara hanno sempre il cambio automatico, ma la sequenza in cui utilizzano il cambio automatico sbattendolo come fosse un mazzuolo c’è sempre), vogliono sentire il rombo dei motori. Il film costa 130 milioni di dollari, una spesa che realizza un prodotto efficace per il pubblico che lo richiede; non come The Great Gatsby che rovina un classico e dimostra che la stessa cifra non rende il film migliore.