È veramente arduo essere civili. Claustrofobia spaziale, frustrazioni represse ci chiamano e ci chiedono udienza ogni giorno. Il disagio latente (ma pronto a scoppiare in qualsiasi momento) dell’adattamento, del rispetto di regole necessariamente autoimposte nel passaggio dalla selva al cemento, di quegli istinti e impulsi primordiali (ne abbiamo già parlato da una differente prospettiva a proposito di un’altra pellicola in concorso, Saideke Balai) che sono ingannevolmente domati o negati a se stessi, freementi di venire realizzati, deviati in valvole di sfogo consentite, necessariamente altre dalle ormai innominabili e blasfeme forme ‘animalesche’.
Lo stesso Roman Polanski ha sperimentato sulla propria pelle la tentazione-dannazione della nostra condizione di animali civilizzati, e chissà se le motivazioni che hanno indotto il cineasta polacco a realizzare Carnage sono anche il frutto di una riflessione di tal genere, resa più viva in questo momento dai propri disagi giudiziari e logistici: costretto all’esilio parigino, e con un’accusa di stupro, atavica sì, ma ben dondolante sulla sua testa, il cineasta polacco si toglie un po’ di tossine amare nella resa cinematografica della pièce teatrale della francese Yasmina Reza, Le die du carnage, successo dal 2007 e allestito in diversi palcoscenici mondiali. Una messa in scena che mantiene il taglio teatrale della Reza, anche se sposta idealmente lo zenit (e il monito-vendetta del cineasta) da Parigi a New York. L’unica inquadratura in esterno, di apertura e chiusura del ‘massacro borghese’ a cui ci accingiamo a presenziare come voyeurs, è il vero cinema di questa pellicola: occhio distante e volutamente (saggiamente) relativo, che enfatizza l’assolutezza dell’implosione interna degli adulti, chiamati a confrontarsi con l’episodio di violenza che vede coinvolti i propri figli.
I coniugi Cowan (Kate Winslet e Christoph Waltz) sono a casa dei coniugi Longstreet (Jodie Foster e John C. Reilly), invitati da questi ultimi a gestire collaborativamente e civilmente l’incidente che ha visto coinvolto il loro figlio Ethan, colpito al viso con un bastone al Brooklyn Bridge Park da Zachary Cowan. Penelope Longstreet batte al pc, sotto gli occhi comprensivi e docili dei tre genitori, una lettera che riassume la modalità dell’incidente e il tipo di lesioni subite da Ethan. Una parola sospetta (accidentalmente?) scritta da Penelope, che rischia di deviare la ovvia (per i Cowan) istintiva reazione di Zachary verso una volontarietà troppo consapevole e prematura per un ragazzo di 11 anni, viene contenuta dall’obiezione a sorriso stretto dei genitori di Zachary. La parola è sostituita, tutto pare formalmente chiuso in una reciproca autoinduzione al senso di cooperazione e solidarietà serena. È Penelope la paladina del ‘volemose bene’, che contagia e aleggia su tutti come una sottile polvere da sparo, la cui miccia viene rigorosamente coperta a dovere sottoterra dagli astanti. E questa polvere da sparo satura quasi subito il soggiorno dei Longstreet: nessuna delle due coppie riesce a mantenere una civile distanza, il buonismo reciproco e forzato è troppo avviato per interromperlo con una stretta di mano ed un saluto. C’è tempo per una torta. Da adesso, i quattro adulti rimarrano chiusi-intrappolati nel soggiorno, dentro i rispettivi ruoli che saranno destinati man a mano a vacillare, fino alla completa disintegrazione e allo svuotamento delle reciproche sovrastrutture. Se le daranno verbalmente di santa ragione. Collasso pieno e grondante di tutta la compressione e la tensione di autolimitazioni indotte, prima da coppia a coppia: la superiorità inconscia economica e sociale dei Cowan (lei broker finanziario, lui avvocato ad alti livelli) si scontra con la inconscia mediocrità della vita dei Longstreet (lei scrittrice dedita all’Africa e ai suoi problemi, lui grossista di pentolame e accessori per la cucina). Dopo, dentro le rispettive ‘dolci metà’: Alan Cowan patologicamente e simbioticamente attaccato al proprio blackberry nel gestire le immondizie legali dei suoi prestigiosissimi clienti; il marito di Penelope, invece, sovraccarico dell’eccessivo civilismo della moglie, completamente agli antipodi della sua essenza. E, infine, rispetto al rapporto con se stessi: Penelope è costipata in un ruolo che non riesce a sostenere, irrigidita dentro uno stereotipo abbracciato fino in fondo in nome di un senso del dovere troppo assoluto, e troppo disumano.
Si ride molto e di gusto, in questa tragicommedia tratteggiata in dialoghi tanto acuti quanto meschini, in atteggiamenti e situazioni che ricalcano la disperata e ridicola ambivalenza del nostro essere umani: una tensione all’elevarsi e una che ci spinge inevitabilmente in basso, verso i nostri istinti più infimi e tremendi. L’umanità ha ancora molta strada da percorrere nell’indirizzare l’evoluzione raggiunta verso una direzione capace di tenere insieme armonicamente i semi primordiali e la consapevolezza dei propri limiti. Alta recitazione, ai massimi livelli, per tutti e quattro i fuoriclasse coinvolti. Menzione speciale per Jodie Foster e Christoph Waltz, incarnati perfettamente e mimicamente nei rispettivi personaggi, di impronta tangibile. Polanski illumina ma non brilla, con questo film. La sua cinematografia ci ha abituato a più alte vette. Sono quelle che ci riempiono veramente.
Maria Cera