Venezia 68: Faust

Creato il 10 settembre 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Pochi cineasti riescono a strutturare opere d’arte, e all’interno di questo già rado numero, pochissimi producono visioni che impegnano e concentrano i sensi al limite delle possibilità di percezione. Alexander Sokurov è un indubbio cineasta che abbina il talento alla massima tensione estetica e narrativa. Il suo Faust è una indiscutibile conferma della propria elevatezza. Ultima tappa della tetralogia dedicata alla natura del potere, che ha visto susseguirsi Moloch (1999), Taurus (2000), Il sole (2005), incentrati rispettivamente su Adolf Hitler, Vladimir Lenin e l’imperatore del Giappone Hirohito, Faust si lega a un’immagine apparentemente di minore spessore (rispetto ai suoi tre predecessori), nell’aura semplice e privata della propria vicenda, ma in realtà risulta estremamente potente in ciò che simboleggia: l’infelicità di una vita quotidiana minata dalla limitatezza, dall’impossibilità di giungere alla conoscenza assoluta: “Le persone infelici sono pericolose”, ci sussurra Goethe, per bocca del suo protagonista, evidenziando la chiave di volta del ‘male’ del doktor Faust (Johannes Zeiler).

Sokurov sceglie un’angolazione diversa dalla quale osservare il doktor. Non traspone letteralmente la tragedia goethiana, piuttosto sceglie di operare sull’ineplicito, sull’humus sottostante i suoi versi. L’universo in cui maturano le insoddisfazioni esistenziali del doktor è un mondo dominato dalla materia, sporco, cupo, soffocante, dove lo stesso Mefistofele (Anton Adasinky) perde le fattezze di fine e ‘soprannaturale’ ispiratore, divenendo un orripilante e inquietante usuraio, abituato a vivere nella sporcizia, nella puzza, sordido e fragile. Il doktor chiede a suo padre il senso del condurre una vita trattenuta nella soddisfazione dei piaceri più immediati (fame, cupidigia, denaro), quando i sacrifici di uno studio serio ed assetato di sapere, che lo avevano portato ad approfondire le varie banche della conoscenza, si sono rivelati solo inutile attività di ricamo attorno a un vuoto indistricabile. L’incontro nel banco dei pegni con questo strano essere (Mefistofele) che racchiude in maniera superiore tutta la bassezza dell’umanità, lo avvicina alla scoperta dei piaceri più prossimi.

Margarete (di cui Isolda Dychauk ne traccia abilmente gli aspetti puri e ‘malefici’) è la giovane fanciulla da cui Faust rimane irresistibilmente attratto: incarna una purezza mista ad una ‘corruzione’ percepita e cosciente a tratti, sia dall’esterno che dall’interno, avvertita col timore impotente della scoperta dalla povera ragazza. Per una notte d’amore con lei, Faust cede la propria anima a Mefistofele, ma la caduta del doktor sarà solo apparente. Sokurov ‘rivoluziona’ e capovolge il senso della salvezza del Faust, rendendola consapevolezza suprema e tutta umana, potere assoluto, slegato da qualunque fondamento divino: “Si farà come voglio io”, intima a Mefistofele, prima di affossarlo sotto il colpo di pesanti massi.

Nascita dell’uomo-dio. Il racconto per immagini, racchiuso in un formato visivo ridotto, che alternativamente comprime-estende-deforma-diseallinea corpi, oggetti, azioni, impressi in una fotografia da ‘dagherrotipo’, è il contrappunto ad una parola (riprodotta nel tedesco d’origine) parimenti mobile e flessibile, che pesa enormemente nel ritmo e nella materia oggetto della disputa del contendere, aggrovigliandosi assieme agli uomini che se ne fanno portatori. Rivelazioni visive sublimi, di luce soprannaturale, abbagliano ed accendono la doppiezza dell’uomo, materializzata ai nostri occhi. Non è il mio Leone d’Oro, catturata ma anche frenata dalla potenza estetizzante offertami, comunque sazia e piena, a fine visione, di una superiore attenzione e cognizione.

Maria Cera

Scritto da Maria Cera il set 10 2011. Registrato sotto IN SALA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione


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