Tsukamoto ritira il premio della sezione Orizzonti - photo by Luca Pili
Kotoko, Giappone, 2011, 91 min.
Torna il cinema disturbante di Tsukamoto, torna il suo stile unico e inconfondibile. Torna, ed è una gioia, perchè segna finalmente una nuova fase nella carriera del regista di Tokyo, una dipartita dagli ultimi tre film che ristagnavano nelle acque basse della reiterazione infinita dei suoi uomini di metallo e detective dell’incubo. Tsukamoto se li scrolla di dosso, macchina a mano e angoscia strisciante, per parlarci come mai aveva fatto della follia dal punto di vista di una emotivamente fragile figura femminile. Il grande ritorno del regista non è passato inosservato, tanto da vincere – meritatamente – il premio principale della sezione Orizzonti, collaterale al Concorso, all’ultima Mostra di Venezia, accolto da un’ovazione e applausi scroscianti che sono suonati molto più sinceri di quelli che solitamente accompagnano i film ”ufficiali” presentati in Sala Grande.
La pellicola nasce dall’incontro del regista con una delle figure più particolari del panorama musicale giapponese, segnato da pop-star e idol dalle carriere a dir poco effimere, Cocco si è distinta sin da giovane per un approccio più da cantautrice e una personalità complessa. La sua importanza nel film è quasi pari a quella di Tsukamoto che come al solito cura regia, sceneggiatura, montaggio e fotografia, mentre lascia a Cocco scenografia, coreografie, musica e una presenza sullo schermo ininterrotta.
Kotoko in realtà getta subito la maschera dell’horror e si rivela come un tipico prodotto tsukamotiano, ovvero inclassificabile, un originale dramma psicologico messo in scena con la solita estetica senza compromessi, una violenza spesso brutale e una visionarietà angosciante, dove la traballante telecamera a mano e i frenetici tagli di montaggio, si accompagnano alla fisicità martoriata di Cocco. Kotoko è un film sul trauma post-parto e le schiaccianti responsabilità di una madre sola, ma è soprattutto un film sulla follia e il disperato sprofondare in essa della protagonista. Quando la situazione degenera e il bimbo viene dato in affidamento alla sorella, Tsukamoto ci mostra la terrificante quotidianità della donna, sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso e sogetta a metodici raptus di autolesionismo nei quali si pratica tagli alle braccia, non per morire, ma per ricordarsi che il suo corpo vuole vivere.
Nell’orgia di immagini fatte di violenza e angoscia, il regista è bravissimo come sempre a creare dei brevi momenti di una felicità sofferta e liberatoria, realizzando scene di un lirismo commovente come in occasione del re-incontro tra Kotoko e il figlio ormai in custodia dalla sorella. Non mancano neppure svolte più leggere come l’entrata in scena di un famoso scrittore (interpretato da Tsukamoto stesso), innamorato di lei, il quale cerca tenacemente di riportare la donna alla normalità. In realtà sarà lui a essere vittima dei suoi sbalzi umorali, sottoponendosi a dolorose “prove d’amore” che però avranno effettivamente effetti benefici sulla donna. In questa parte la pellicola cambia bruscamente di tono diventando una commedia sentimentale grottesca, tutta giocata sul rapporto sadomaso che si instaura tra i due, in grado di regalare più di un sorriso allo spettatore.
Un’ultima considerazione va sicuramente dedicata a Cocco e alla sua prova. La cantante di Okinawa ci mette corpo e anima, e si vede, tanto che Tsukamoto le lascia tutto lo spazio possibile – forse anche troppo a volte - ed è innegabile l’energia e la forza catartica che sprigiona una scena come quella della canzone cantata per intero dall’attrice in un’unica sequenza o la già citata danza finale. Pur senza il fido Ishikawa Chu alle musiche, anche questa volta l’impianto sonoro è di grande rilevanza e rimane, questo sì, nella più classica tradizione tsukamotiana nella quale alle suadenti canzoni di Cocco si alterna una partitura tutta strumentale che si adatta ormai alla perfezione ai movimenti schizzoidi della macchina da presa del regista.
Kotoko rappresenta insomma un compiuto passo in avanti nel percorso di Tsukamoto che non mancherà di stupire – in positivo – chi lo conosce bene con un’opera sempre estremamente personale, ma altrettanto diversa da quelle a cui ci aveva abituato. Allo stesso tempo rappresenta un’esperienza difficilmente replicabile per qualsiasi spettatore che provi ad avvinarsi al mondo claustrofobico e ansiogeno della protagonista, dal quale verrà assorbito totalmente per poi essere ricompensato da un finale che muoverà più d’uno alle lacrime.
un grazie a Bragaz per le preziose informazioni
EDA