Anno: 2013
Durata: 84′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Francia, Israele
Regia: Amos Gitai
Il piano sequenza è ritmo politico e visivo dell’utopia-possibilità di convivenza
Amos Gitai torna nel concorso ufficiale facendogli compiere un notevole salto di livello. Si tocca ed assorbe un visivo che è sostanza e forma, nell’unione tra sguardo e parola, alla ricerca di un ritmo. In una contemporaneità nella quale le informazioni sono scandite con una velocità che impedisce qualunque minima effettiva conoscenza, il cinema (così il cineasta in conferenza stampa) deve reinstaurarne il tempo, la comprensione, le contraddizioni su ciò che si racconta, per sondarne l’effettiva realtà-essenza.
Ana Arabia è la forma politica filmica di un’utopia (possibile) che Gitai porta avanti da molti anni con il suo cinema: che Israeliani ed Palestinesi possano convivere in pace, venendosi reciprocamente incontro. Il ritmo è politico, lentezza per conoscere…Realizzare una pellicola che unisce significato e forma intorno all’infinita agonia della questione Mediorientale, significa, politicamente, anche rendere visivamente tangibile l’idea che i rapporti non vadano spezzati, ma composti nel reciproco dialogo e nel reciproco ascolto. Ecco il perché del piano sequenza. Precisamente, un piano sequenza di 85 minuti, in formato 1:25. Impossibile da realizzare fino a qualche tempo fa, tecnicamente.
La vicenda di pura fiction nella quale entriamo, insieme alla sua protagonista Yael, (la gazzella Yuval Scharf), è alimentata da esistenze realmente vissute, tra cui spicca Ana, donna ebrea deportata in un campo di concentramento, che si innamora e sposa un Arabo. Ana non c’è più, defunta, ma nel semicerchio al confine tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, è rimasta la sua famiglia: il marito, la figlia…Insieme ad altri emarginati Arabi ed Ebrei. Yael è una giovane giornalista venuta ad indagare su questa ‘voce’: attraverserà più volte il semicerchio di mattoni e lamiere (e noi con lei), ascoltando i pezzi di vita e di verità delle persone che lo abitano, dimenticando pian piano ciò che era venuta a fare, immergendosi completamente nella scoperta in primis di un luogo che incanta, pur nella povertà e nella trascuratezza che lo caratterizzano, per l’isolamento e la quiete che contiene (anche nell’apertura inaspettata all’agrumeto-oasi di distacco dalla realtà che si rivela ai nostri occhi), per la semplicità di un costruirsi da sé il proprio habitat (e Gitai ha rimarcato anche una voluta messa in discussione, con la location scelta – da architetto qual è – dell’eccessivo ricorso al design, oggi). E nel racconto dei suoi abitanti, di un passato, le sue tradizioni, i problemi dopo la guerra, le sconfitte personali, i fallimenti, i lutti… Ma anche l’attaccamento a tutti i costi alle proprie radici, all’essenzialità di una vita vissuta con semplicità, con mezzi di sostentamento elementari. Le parole che ascoltiamo penetrano in noi come la coreografia visiva che compiamo insieme alla steadicam che lambisce, accarezza e sosta nell’avamposto dell’utopia, compiendo una danza lenta, sinuosa, con pause, ritorni, ‘circumnavigazioni’. Yael la conduce con una grazia e un’attenzione che simboleggiano il lato attivo dell’ascolto, primo essenziale gesto reciproco per qualunque possibile dialogo.
L’occhio di Gitai rende il tempo autentico che Israele e Palestina dovrebbero concedersi reciprocamente, in una coesistenza che è quotidianità, semplicità del recupero dell’essenziale del vivere. Del senso di umanità comune che racchiude entrambi i popoli. Mio Leone d’Oro, per l’innovazione di linguaggio che il cineasta israeliano ha portato, concettualmente: una filosofia del tecnicismo filmico che recupera l’umanesimo che il cinema ha perduto.
Maria Cera