Anno: 2013
Durata: 92′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Italia
Regia: Daniele Gaglianone
Inizia dichiarandosi sfacciatamente come un documentario di finzione, in un parola più tecnologica, un mockumentary. Un genere che pensavamo fosse passato di moda, fino a quando non ha deciso di cimentarsi nella fusione elaborando un prodotto che non è banalmente un rimescolamento di linguaggi: c’è una tale consapevolezza dello strumento adoperato per fare leva sull’emotività dello spettatore, una tale cosciente volontà di raccontare una storia scrollando lo spettatore dall’indifferenza della poltrona della sala, che il film fluttua in un magnifico equilibrio funambolico.
Raccontarne la trama in dettaglio, sarebbe come svelare il contenuto dei regali di Natale in anticipo. Ogni singolo passaggio narrativo è bello sia nella sua scelta registica che nel suo percorso di evoluzione della storia, e ha il diritto di essere lasciato alla scoperta, non allo svelamento anticipato. Pertanto, la sola vicenda di base è la simulazione (quanto vera e quanto finta?) di un corso di italiano per stranieri tenuto da un docente d’eccezione, Valerio Mastandrea. Il suo ruolo, all’interno della classe ricostruita, sta a metà tra il burattinaio e l’alterego del regista: una fiducia eccezionale deve aver legato il regista al suo sostituto, che ha personalmente guidato gli alunni ad interpretare se stessi davanti all’obiettivo.
I personaggi pertanto, prima si esercitano nella lingua e ti fanno sorridere, e poi iniziano ad aprire i loro cuori. Contemporaneamente, con silente lentezza, una linea di finzione si insinua e rimescola il confine tra realtà e fantasia: a tal punto che sul finale di alcuni non sappiamo realmente interpretare la fine (fortunato il pubblico veneziano, che ha parlato direttamente con gli attori in sala). L’opera poi, è completata da: colori vivaci, che ben rappresentano la variopinta varietà dei protagonisti; lenti movimenti di carrello, che cullano le storie e accompagnano lo spettatore all’interno dei profili drammatici e di critica al sistema; una canzone, discussa in classe, che ha reso Daniele Silvestri interprete dell’animo di almeno dieci diverse culture.
La genialità del prodotto è data dall’imprevedibilità degli avvenimenti: essersi confrontati con la precarietà delle esistenze di questi immigrati ha coinvolto l’esito stesso del film, ingabbiato nelle maglie burocratiche del sistema, che ad un certo punto ha costretto il regista a metterne in discussione la resa finale. Ma tale era l’interesse a voler portare a termine questo discorso aperto, che la creatività ha lavorato per trovare una strada alternativa che salvasse film e intento sociale.
Rimane infine da citare la primaria riflessione tematica che Gaglianone opera con questi strumenti linguistici raffinati, a proposito della coltre di gomma appiccicosa che avvolge questi esseri umani, spesso fuggiti dalla terra di nessuno. Da quei racconti si capisce come le loro speranze siano schiave di un battere d’ali burocratico che si sposta col vento politico. La mia classe non è pensato per provare pietà, ma per restituir loro il rispetto dovuto.
Rita Andreetti