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Venezia 70: la recensione di "Philomena" di Stephen Frears

Creato il 31 agosto 2013 da Luca Ottocento


Giunti al quarto giorno di proiezioni, è finalmente arrivato il primo film di spessore nel concorso della 70a edizione del Festival di Venezia. Si tratta di Philomena del settantaduenne regista britannico Stephen Frears, già autore in passato di pellicole quali Le relazioni pericolose (1988), Rischiose abitudini (1990), Hi-Lo Country (1998, che gli valse l’Orso d’argento per la miglior regia al Festival di Berlino), Alta fedeltà (2000) e The Queen (2006). L’ultima fatica di Frears è l'intenso e commovente racconto della ricerca da parte di una anziana donna irlandese (Judi Dench), coadiuvata da un noto giornalista politico rimasto senza lavoro interessatosi alla vicenda (Steve Coogan), del figlio sottrattole cinquant’anni prima dalle suore del convento in cui, per volere dei genitori, era stata rinchiusa dopo essere rimasta incinta.
 
Ispirata a una storia vera e basata sul fortunato romanzo del 2009 The Lost Child of Philomena Lee di Martin Sixsmith (lo stesso giornalista protagonista della storia), la pellicola è ottimamente sceneggiata da Steve Coogan e Jeff Pope e, per la sua ora e mezza di durata, alterna magistralmente e con gran senso del ritmo i registri del dramma e della commedia (alcuni dialoghi tra i due protagonisti principali sono assai raffinati e pungenti, in pieno stile british).
Giocando sapientemente sul piano drammaturgico con l’avvicendamento dello sviluppo della ricerca e dei drammatici ricordi della donna che progressivamente affiorano e facendo leva su una regia la cui efficacia risulta direttamente proporzionale alla propria asciuttezza (Frears, d'altronde, ci ha ormai da anni abituati a uno stile essenziale ed elegante scevro di virtuosismi), Philomena si rivela inoltre un film formalmente impeccabile in grado di coinvolgere chi guarda in modo vigoroso e senza soluzione di continuità.
Da notare, infine, le eccellenti interpretazioni di Judi Dench e Steve Coogan, entrambe capaci di sostenere con notevole efficacia tanto i momenti più tragici della narrazione quanto quelli più ironici e divertenti.

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