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Venezia 70: “Miss Violence” di Alexandros Avranas (In Concorso)

Creato il 02 settembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Venezia 70: “Miss Violence” di Alexandros Avranas (In Concorso)

 

Anno: 2013

Distribuzione: Elle Driver

Durata: 99′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Grecia

Regia: Alexandros Avranas

Con questo suo secondo lungometraggio Alexandros Avranas colpisce dritto al cuore passando però prima dallo stomaco. Forte, coraggioso, violento con uno stile asciutto al limite del minimale, il regista greco filma l’archetipo del male, nell’aspetto più subdolo, quello che nasce dentro le mura domestiche.

La sequenza iniziale ci catapulta subito nell’inferno costruito ad hoc dal viscido nonno/padre/padrone (Themis Panou). Il più classico dei compleanni in famiglia si trasforma rapidamente in tragedia. La festeggiata, l’undicenne Angeliki (Sissy Toumasi) si butta giù dal balcone e muore, non prima di averci regalato un’inquietante sguardo in macchina con un sorriso stampato sul volto che decifreremo con lo scorrere della pellicola. La macchina da presa inquadra dall’alto in una verticalità rosselliniana il corpo inerme e sanguinante della ragazza mentre a poco a poco accorrono i familiari.

Benvenuti nel cinema di Avranas che, seguendo lo stile della “nouvelle vague greca” degli ultimi anni, non fa sconti sul piano della violenza visiva e contenutistica affrontando temi come l’incesto, la pedofilia e l’esercizio del potere. La famiglia è gerarchicamente  organizzata dal nonno/padre in modo da annientare le vite dei componenti che devono sottostare in tutto e per tutto al volere del capo. La figlia (Eleni Rossinou) insieme alla madre (Reni Pitaki) paiono assuefatte alle violenze che il padre infigge a loro e non riescono a proteggere nemmeno i componenti più piccoli del nucleo familiare. Una sorta di nausea cresce in noi nel vedere come il viscido protagonista consideri le componenti femminili come corpi da usare o meri oggetti di scambio.

Ma quello che il regista riesce a esprimere meglio è la rassegnata accettazione delle vittime, succubi di una forma mentale inculcata con metodica precisione. Proprio a questo riguardo in conferenza stampa Avranas ha sottolineato: “Il padre comanda e stabilisce in che modo la famiglia debba funzionare con metodi che non sono molto diversi da quelli usati per manipolare la società. La violenza più efferata è quella del silenzio. Del non detto”. Una chiara critica alla società contemporanea, che finge di non vedere certe situazioni, come fanno nel film gli assistenti sociali.

L’uccisione dell’orco pare portare ad una libertà solo apparente che dura lo spazio di un soffio. La sequenza finale, con la madre che in  atteggiamento marziale dice di chiudere la porta, che viene inquadrata dall’esterno, segna un neanche tanto metaforico passaggio di consegne.

In una sorta di mito circolare di pasoliniana memoria.

Vittorio Zenardi


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