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Venezia 70: “Ruin” di Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody (Orizzonti)

Creato il 05 settembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Venezia 70: “Ruin” di Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody (Orizzonti)

 

Anno: 2013

Durata: 90′

Genere: Documentario/Drammatico

Nazionalità: Australia

Regia: Amiel Courtin-Wilson/Michael Cody

 

Due anime all’inferno

La comune passione per l’estetica drammatico-documentaristica e il legame anche cinematografico di entrambi con l’Asia, ha portato Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody a fondare il collettivo Flood Projects. A Venezia 70, approdano nella coregia con Ruin, nella sezione Orizzonti, dopo Hail – in Orizzonti del 2011 – in cui si erano divisi i  ruoli di produttore (Michael Cody) e regista (Amiel Courtin-Wilson). Il progetto (girato in 2 blocchi di venti giorni a un anno di distanza l’uno dall’altro, con la troupe australiana e la produzione cambogiana Hanuman Films) che sta alla base di Ruin è ambizioso: forma visiva al confine tra documentario e drammaturgia, riflette come un prisma, percezioni, contatti, stati d’animo, traducendole in incorporee essenze di luce, spazio, materia. Due esistenze invisibili, ai margini in una Cambogia post genocidio, consumano il loro rispettivo ‘supplizio’. Sovanna e Phirun (gli attori non professionisti Siek Somalen e Rous Muni). Sovanna è puro corpo alla mercé di violenza e sfruttamento. Phirun, frustrato dentro un carattere che lui stesso non riesce a domare negli scatti di intemperanza a cui è soggetto, vaga dentro i giorni prendendo il lavoro che trova. Una strada li avvicina nel cammino reciproco (fuga per Sovanna, vagabondaggio per Phirun) e li porta a riconoscersi. Da quel momento saranno uniti in un viaggio che è allontanamento fisico e mentale dalla realtà che li circonda: inferno di lotta per la sopravvivenza a cielo aperto, dove la donna è puro corpo-merce da abusare in qualsiasi momento, nell’atto più ‘naturale’ del mondo. E dove il danaro è mezzo di identificazione-salvezza da un’invisibilità esistenziale perenne. Nel non luogo verso il quale i due si dirigono, scoprono ognuno l’altro nelle rispettive ‘chiusure’: di fuoco imploso per la violenza subita, di progettualità rimandata in un mancato confronto con se stessi. L’acqua è la simbologia che più di ogni altra accompagna questa narrazione: allontana, sospende, calma. Flusso di un inconscio che diviene palpabile nelle scie di luce, fuoco e brillantezza in cui trattiene istinti e desideri, tensioni verso una rinascita che dovrà attraversare altre dure prove per entrambi, nel rafforzare una reciproca fiducia inizialmente trattenuta.

La pellicola contiene indubbi pregi visivi: la camera induce sia nella materia che nel corpo, in una esplorazione raffinata nei dettagli che mostra, nei tagli di inquadratura che intensificano percezioni, nelle rarefazioni di messa a fuoco che stratificano stati d’animo ed atmosfere. Ma procura anche eccessi di artificio tecnico che fanno perdere credibilità impressionista a ciò che si racconta. E la storia in sé è lasciata andare ad un caso che non è mero flusso (avendo, allora, tutto il senso di raccordo con la prospettiva visiva messa in scena), ma passaggi guidati in un ‘andare da sé’ che chiede ‘ragione narrativa’ di ciò a cui si assiste.

Maria Cera


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