Anno: 2013
Durata: 138′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Francia, Taiwan
Regia: Tsai Ming liang
Elogio della lentezza e del cinema
Il concorso di Venezia 70 sfodera il secondo dei miei due big: Tsai Ming liang. Uno dei cineasti più innovatori di questa contemporaneità visiva così confusa, sterile, che non fa fare all’occhio nessun passo avanti in una rivelazione (il saper guardare) dal cinema alla vita. Una contemporaneità che non si è mai vista allo specchio, capace (anche nel visivo) solo di correre, stordendosi. Stray dogs è il ritorno (forse ultimo, anche se il cineasta taiwanese con la solita ironia che lo contraddistingue affida al caso, al destino, il poter continuare a realizzare lungometraggi – mai creati per sistema, ma unicamente partoriti da sue necessità interiori), dopo quattro anni, ad una versione visiva lunga. L’arco di tempo che ha preceduto la realizzazione di Stray Dogs, Ming liang l’ha speso anche dentro Walker (Proiezione Speciale della Semaine De La Critique di Cannes 2012): riflessione sulla percezione di Hong Kong, uno dei simboli del capitalismo asiatico, attraverso l’incedere di un monaco che la percorre, dando ‘senso e verità’ allo spazio circostante. Nella sezione Orizzonti della scorsa edizione ha sottoposto al pubblico Diamond sutra, esperimento visivo che coniugava spiritualismo, modernità e senso del tempo in una lentissima, estenuante, camminata di 20 minuti dell’attore feticcio, stessa ‘ratio’ del cinema di Tsai Ming liang: Lee Kang-sheng. Perché il visivo di questo cineasta, nella chiave di volta anche della sua estrema lentezza, cattura-ferma-isola e fa guardare come se fosse la prima volta, tutto quello che l’umanità perde e consuma nella sua folle corsa, compreso se stessa e ciò che è diventata.
Stray dogs è l’inseguimento-pedinamento di un uomo e dei suoi due figli, anime vaganti ai margini di una Taipei moderna. Lui (Lee Kang-sheng), cartello-umano di un’agenzia immobiliare per appartamenti di lusso, è impalato di giorno in un punto della città, lasciandosi attraversare da traffico, perturbazioni metereologiche ed umanità. I piccoli girovagano tra bosco, fiume, centri commerciali… Un edificio abbandonato, il bunker-casa dove di notte i tre si ritirano: una zanzariera che circonda il letto, il confine poetico tra esterno e interno, amarezze, disillusioni, allegria, sogni e speranze. Nella non storia a cui assistiamo, ogni scena è una rivelazione. Un’umanità malata, fin dentro le sue costruzioni architettoniche (tema caro alla cinematografia di Ming liang sin dai suoi primi lungometraggi) fredde e claustrofobiche, nicchie-loculi dove l’uomo si barrica e si nasconde. Tale aspetto emerge qui ancora più pregnante: sembra di stare sottoterra, isolati dal mondo, ispezionando assieme alla macchina da presa le pareti del rifugio della micro famiglia spezzata (incapace di ricomporsi insieme ad una figura femminile costante), segnate ‘artisticamente’ dall’umidità. Tracce di un logoramento-decadenza anche urbana di un uomo sempre più alieno, sempre più degradato, nella modernità, allo stato brado della propria incoscienza. Memorabile, tra gli altri, il primissimo piano di Lee Kang-sheng che azzanna e mangia una coscia di pollo: davanti vedevo l’uomo primitivo nella stessa angoscia di assoluto, di vuoto che ci trafigge tutti. E straordinaria, l’acutezza di prospettiva di cui il cineasta è capace. Nel quadro della macchina da presa Tsai Ming liang racchiude-isola-dilata, con capacità compositiva visiva e rivelatrice atipica ed acuta, pezzi di modernità umana, naturale ed urbana… Una trasfigurazione shockante: dal banco frigo di un ipermercato ad un lavatoio pubblico, a primissimi piani lasciati fluire dall’esistere dello straordinario Lee Kang-sheng, a forme urbane, spazi naturali attraversati e non da uomini o animali… Percepiamo, nell’occhio che comprime, stilizza, penetra (grazie anche al verismo fotografico del direttore della fotografia Liao Peng-Jung), scorre, si ferma, corpi ed anime sole, vagabondi esistenziali smarriti in mancanze da colmare, invano. L’affrancamento da bisogni superflui neppure pare liberare l’uomo… In Stray Dogs, i cani randagi che dividono il bassofondo-stabile dei protagonisti “Sono gli esseri più liberi, da cui imparare…” (così il regista). Ma c’è bisogno di un nuovo uomo, che ricominci a pensare in funzione dei suoi reali bisogni: i ‘cani randagi umani’ sono ancora pochi, oggi. Leone d’oro… si sussurra. Lo sussurro anch’io, per scaramanzia. Ne sarei vivamente felice.
Maria Cera