Anno: 2014
Durata: 87′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Giappone
Regia: Shinka Tsukamoto
Shinka Tsukamoto ci regala con Fires on the plain (Nobi), in concorso nella selezione ufficiale, una pellicola di talento visivo e metaforico straordinari. Una maturità sorprendete, che unisce natura ed uomo in un rapporto di simbiosi tanto ancestrale quanto scisso, e nella incapacità (ormai) dell’uomo di guardare alla paradisiaca culla in cui la sua esistenza è racchiusa (culla tranciata da una civilizzazione che ha reso l’uomo asettico, alienato dalla natura e dalla morte, inetto nel cogliere perciò fino in fondo la sua transitorietà), e nella perdita di memoria su cosa siamo, su quanto sia semplice (per tutti, nessuno escluso) esternare l’abominio che ognuno di noi contiene, sempre fluttuante come magma interiore (represso dentro alienazioni e frustrazioni), rigettato in fondo da una civilizzazione che può essere scardinata in pochissimi istanti. Tsukamoto sceglie come base sostanziale Nobi - La guerra del soldato Tamura, un romanzo di Shohei Ooka e il contesto estremo e disperato di un conflitto bellico.
Filippine, ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Le truppe di occupazione giapponese stanno rapidamente perdendo terreno, dovendo contemporaneamente fronteggiare la resistenza locale e l’offensiva americana. I pochi Giapponesi sopravvissuti non possono che lentamente perire… tra massacri, cannibalismo e tentativi di resistenza alla vita, qualunque modo e forma la resistenza consenta, qualunque. Questo romanzo aveva già avuto un adattamento cinematografico da Kon Ichikawa negli anni ’50. Tsukamoto lo rende invece dentro una chiave di lettura che punta il dito contro l’uomo moderno.
Come nello spazio sospeso e atemporale della guerra, l’uomo civilizzato vaga senza meta nel mondo moderno: “Nella nostra giungla urbana sterilizzata i nostri cervelli si sono iper-sviluppati, mentre i nostri corpi hanno perso il contatto con le sensazioni fisiche. Non siamo più coscienti di cosa significhi essere vivi. Le città non rappresentano il mondo. Non sono altro che barche senza timone che fluttuano nel mare della natura. Mostrando coloro che sono risucchiati nella follia bellica ho voluto far riflettere sul perché decidiamo di optare per le guerre. Se lottare è un istinto primordiale, volevo scoprire se l’intelligenza in questo riveste un ruolo. Escluderci dal contesto della morte ci porta a esserne in contatto in modo precario, senza un appropriato senso di rispetto e di timore reverenziale.” (Tsukamoto).
E la coscienza dell’essere vivi Tsukamoto la svela proprio dentro la metafora di un inferno tutto terreno ed umano, nel quale i mostri che vediamo sono alienazioni moderne incarnate (della stessa aura dei ‘mostri urbani’ che tante volte Tsukamoto ha rappresentato), dove il soldato Tamura (lo stesso Tsukamoto interprete eccellente), un uomo normale, uno che ha sempre vissuto dentro la rassicurante protezione dell’arte e della scrittura, sperimenta l’orrore totale di una bestialità in rapporto a se stesso e a coloro che lo circondano. Momenti di crudeltà assoluta e perciò alienante, fissati visivamente con un tecnicismo finissimo (stupefacente, la resa visiva dell’improvviso arrivo dei proiettili dall’alto e la mira assolutamente direzionale e causale insieme che seguono nella loro traiettoria, lasciando vittime e superstiti al loro passaggio) capace di farci prendere totalmente in carico il riflesso bestiale dei protagonisti che incontriamo, dentro una fotografia iperrealista e insieme trasfigurante, nella quale gli inserti paradisiaci dello stesso luogo terra di guerra, nelle sue splendide acque, nella incredibile vegetazione e luminosità che possiede, ci rende il senso di un latte e miele che incredibilmente non siamo più in grado di vedere! Non siamo più in grado di comprendere quanto la vita sia preziosa, tangibile e ricca, ne abbiamo smarrito il senso, il valore, il modo di possederla…siamo dei pazzi, Tsukamoto ce lo grida con questo film. Dei pazzi. Nobi profuma intensamente di Leone d’Oro…
Maria Cera