Non si smentisce mai lo smargiasso. Anche stavolta non ha perso lui, macchè.. ha perso la sinistra. Per una volta ha ragione, temo.
Il fantasma della sinistra ha perso un bel po’ di tempo fa, nell’assistere senza reazione visibile alle mutazioni del grande partito che avrebbe dovuto testimoniare e rappresentare le ragioni degli sfruttati e guidare il loro riscatto, nell’abiura del mandato di immaginare un’alternativa, nell’accettazione di quella colonizzazione del pensiero collettivo di modelli di consumo e culturali ben assestati sulla sopraffazione. E continua a perdere prestandosi alle lusinghe dell’ideologia imperante, quella che fa del realismo l’unico contesto nel quale agire, della necessità l’imperativo cui uniformarsi, con la obbligatoria rinuncia a diritti, garanzie acquisite e pre-pagate, del rigore come pena meritata dopo anni di festosa e scriteriata dissipatezza, dell’assoggettamento fisico e morale ad un’autorità senza autorevolezza, unita in nome delle disuguaglianze sotto la bandiera di una moneta e dei suoi feroci sacerdoti e di quello militare e culturale a un impero vacillante.
E diabolicamente persevera quando cerca personalità di facciata, come quelle sagome di cartone davanti alle piazzole di servizio, che dovrebbero imbonire i viaggiatori semplicemente con la loro immagine, o, nel migliore dei casi con le referenze di un passato affondato nella integrazione piena nell’apparato e nelle nomenclature, suffragata dell’appoggio non poi tanto tardivo del leader del partito unico, confermata da apparentamenti sconcertanti con avversari di quella partita delle primarie, anche quella sigillo dell’appartenenza consapevole, esplicita e indiscussa al Pd e alle sue cerimonie.
Ben altro ci voleva a Venezia, capoluogo largamente estraneo al Veneto, un po’ egemone un po’ carnefice, lacerato al suo interno dalla divisione di sempre, quella tra una città storica e d’arte ineguagliabile, modello urbanistico e utopia realizzata e una “periferia” che fu industriale, oggi ammalata per l’eclissi delle produzioni e dell’industrializzazione, patendone tutti gli effetti postumi.
Ben altro ci voleva a Venezia, diventata il laboratorio sperimentale dell’alienazione dei beni comuni (il caso del Fontego retrocesso a fatuo e rutilante centro commerciale è esemplare), della supremazia dell’emergenza, quella dell’acqua alta, nutrita con il non-fare in modo da poter fare tutto in regime di eccezionalità, in stato di crisi perenne, aggirando regole grazie a leggi speciali adottate per legittimare l’illegittimo e perfino l’illegale, provvedimenti, gestioni eccezionali, commissari straordinari, impegnati a consolidare gli interessi speculativi e corruttivi di soliti noti. E tutti sapevano, compresi i candidati alla successione dell’ultimo sindaco del Pd, ma dal Pd rinnegato, tutti talmente disincantati, talmente mitridatizzati ai veleni da non denunciare da non alzare la voce, da non dire no, facendo sospettare “intelligenza” col passato e sudditanza a un modello di crescita e “modernizzazione”, sollecitato dal tipo di turismo che inonda la città e in totale contrasto a quello veneziano di civiltà, “pensata per la vita associata e costruita per durare, luogo deputato della progettazione del futuro” e della riconciliazione con l’ambiente intorno.
Ben altro ci voleva in un Veneto stretto dalla crisi, strangolato da cassa integrazione, licenziamenti, fallimenti, mutui, tassi d’interesse, crediti usurai, mercato del lavoro spietato, concorrenza d’impresa ferina, infrastrutture caotiche, che si è consegnato a una realtà nota e perciò accettabile? che strizza l’occhio alle pulsioni xenofobe e razziste, alle richieste di autonomia, ben oltre il mite federalismo, all’adesione incondizionata all’ iniquità delle politiche del rifiuto e del respingimento.
Ben altro ci voleva per fornire risposte politiche a cittadinanze ormai persuase che la politica sia sporca, che per combattere la corruzione in alto – e magari dare qualche attenuante a quella che intride la società, magari com forma superstite di autodifesa- convinte della perversa omologazione secondo la quale “sono tutti uguali” e che se la scelta è tra padroni e padrini o maggiordomi e imitatori, tant’è scegliere l’originale, inclini a credere e a riconoscersi in figure mediocri ma vicine, che rivendicano inflessioni vernacolari e frequentazioni comuni, propense a dare fiducia alla leggenda di chi si è fatto da sé nel bene e nel male, che almeno dimostra con ricchezze più o meno trasparenti di aver conosciuto il lavoro, e che con furbizia ruspante propone larghe intese con accesso agevolato al Pd. A dimostrare che il boriosetto di Palazzo Chigi ha torto nel pensare che il voto locale non investa il governo, ma ha ragione nel pensare che il Partito unico della nazione ha comunque vinto grazie ai suoi candidati: esce Casson entra Brugnaro.