Adesso possiamo stare tranquilli: se domani una delle 12 grandi navi da crociera attese a Venezia, dopo aver sventrato le antiche pietre del Bacino di San Marco si dovesse rovesciare dopo l’oltraggio su un fianco vomitando veleni , sappiamo che con una certa spesa, grazie all’impiego di grandi mezzi e formidabili risorse, replicando uno spettacolo mediatico che avrà perso lo smalto della novità, potrà essere rialzata. Forti di questa incoraggiante convinzione, autorità veneziane, non tutte ma quasi, compagnie di navigazione, cittadini rimbambiti da dati fasulli sui magnifici e munifici profitti delle maxi crociere, assisteranno nel primo giorno d’autunno alla kermesse, anche quella poderosa ma purtroppo non unica, del passaggio nel ventre di una città, quella si unica, delicatissima, vulnerabile e fragile, di 12 grattacieli naviganti, con 771.987 tonnellate di stazza lorda e 30mila persone a bordo.
Tante volte ho ripetuto che un ceto dirigente non solo locale, coerentemente con l’ideologia sviluppista che sceglie sempre il gigantismo, l’illimitato, il pesante, l’urlato, rispetto all’armonioso, al misurato, al ragionevole, ha scelto di mettere alla prova delle città campione, per effettuare test di resistenza della bellezza e dell’ambiente. Se sopravvivono, allora si può tentare ancora di più, andare ancora oltre, costruire torri inutili, bucare i sottosuoli senza ragione, far correre treni vanamente veloci, alzare arcate impossibili su stretti irraggiungibili, spostare migliaia di persone, quattro volte le popolazioni indigene, per portarle a fotografare dall’alto quinte teatrali che sfidano il pericolo di essere frantumate, per far provare ai deportati delle vacanze la straordinaria emozione – non improbabile – di vederle rovinare grazie al loro barbarico passaggio.
È così credo, ma nel caso di Venezia, l’intento è ancora più indecente, quello di cacciare definitivamente in esilio gli ultimi residenti, ridotti a 60 mila, svuotare la scatola magica per farne un contenitore per cortei di viandanti a breve termine e l’asilo dorato per i nuovi ricchi globali, sempre più ricchi, sempre più determinati all’emarginazione dei poveri fuori dalle loro enclave privilegiate ed esclusive.
Non occorsero mura per fare di Venezia una fortezza che resisteva alle orde grazie alla laguna dove i primi abitanti stavano come uccelli acquatici in certi nidi palustri, ma quella difesa educò i suoi cittadini all’indipendenza, all’esplorazione di altri mondi oltre il mare, all’accoglienza di gente che veniva da lontano con altre religioni, altre cucine, altri colori, altre lingue.
Quelle strade del mare che avevano reso la città potente e sulle quali avevano viaggiato merci, oro, gemme, sete, spezie e forestieri curiosi di un posto unico al mondo, senza cavalli, senza carrozze, laborioso e gaudente, tenace nell’integrare e replicare modi nuovi di creare, dire, scrivere, pensare, sono diventate un rischio, le scorciatoie per la progressiva espropriazione ai danni di chi c’è nato, di chi la ama, di chi vorrebbe morirci, di chi la vuole come el campanil, quando è rovinato su se stesso, dov’era e com’era.
Corrotti nel migliore dei casi da una cultura del profitto, probabilmente dalla recente annessione a un ceto di ricchi e profittatori vecchi e nuovi, forse, semplicemente, da regalie, “scambi” ormai collaudati di favori, quattrini, sostegni, voti, i governanti locali e nazionali stanno provvedendo a avvilire le attività tradizionali: chiudono le vetrerie, le botteghe, gli artigiani a causa di una serrata promossa da quei processi che sotto la dicitura eufemistica di “liberalizzazione” penalizzano il piccolo, il radicato, il locale, il bello, per aprire al brutto, al copiato, al contraffatto, alla plastica perenne, al tanto rovesciato oltraggiosamente in negozi tutti uguali in tutto il mondo globalizzato, che vendono prodotti tutti uguali, tutti ugualmente effimeri, ugualmente anonimi, ugualmente seriali.
L’espropriazione del suolo e della memoria dei veneziani da parte di un ceto senza origini, senza radici e senza aspirazioni se non quelle dell’interesse di pochi, avviene in tanti modi. Uno consiste nello spacciare notizie false o non dandone affatto. Morie di pesci, incremento di patologie, vengono così attribuiti a fenomeni naturali, come se – comunque – fosse naturale e fisiologico un anomalo incremento della temperatura dell’acqua, che assume colori inquietanti e che semina morte tra le specie, come se fosse normale smuovere sottosuolo, scavare nel profondo e ripromettersi altri scavi per altri canali, o per innalzare barriere ormai tardive e inutili. Così non si offrono rilevazioni e accertamenti in merito all’inquinamento atmosferico, dopo aver esaltato l’inganno decidendo per legge che l’impatto ambientale della navi è nullo grazie al contenimento di alcuni dei veleni contenuti nei carburanti. Come se non ci fossero più la pressione sulla laguna, le emissioni, i reflui, ed anche l’inquinamento visivo, quello psicologico dei dozzine di mostri, azzerati magicamente dai guadagni pingui e opulenti che il loro passaggio procurerebbe, altre verità di regime contestate dall’università di Ca’ Foscari, che a fronte dei ridotti proventi da comitive che nel migliore dei casi sfiorano per fotografare la città, provocano costi formidabili e irrecuperabili in termini di ambiente e salute.
Un altro modo per togliere ai veneziani e a tutti i cittadini del mondo, il diritto di godere di un posto unico al mondo è quello di impoverirlo, di depauperare la sua cifra speciale, annullare il suo carattere di unicità, consegnandola a mode senza storia, rendendo sempre più esigue le risorse per la manutenzione di tesori millenari, per la loro custodia e la loro offerta, preferendo grandi eventi fasulli, mostre che esibiscono catafalchi di rottami, inconsapevolmente profetici, orrendi monumenti di ferraglie in omaggio all’eclissi della creatività e all’enfasi della pura provocazione, fino all’ultima di queste, la più paradossale, fare di Venezia cui è stata dichiarata guerra dal più osceno profitto, la sede di una fantomatica Expo della Pace, un’idea perlomeno peregrina, un ossimoro in tempi di belligeranza contro la memoria, la storia e la cultura.
E un altro modo ancora consiste nella cessione di spazi e di speranze di crescita e lavoro, offerti in comodato perenne alla cordata degli espliciti speculatori del Consorzio, peraltro molto inquisito ma inaffondabile, che intorno al Mose ha edificato un potere protervo, assoluto e dai contorni che sconfinano nell’illegalità accertata, che, col beneplacito dell’alta carica, è stato omaggiato del più significativo monumento del lavoro e della tradizione veneziana, quell’Arsenale cui si voleva consegnare il testimone del rilancio delle attività cantieristiche.
Tutto a Venezia anticipa, ricorda e rappresenta il meglio delle mani dell’uomo e delle loro capacità ed insieme rammenta il suo ambiente naturale: il “terrasso”, quella pavimentazione nella quale sono intarsiati frammenti madreperlacei e colorati, evoca la riva quando la marea si ritira e lascia conchiglie, piccoli animali e piante marine. Guardare la città dall’alto, così fragile e leggera fa venire in mente la delicata trama dei merletti. Il gioco di trasparenze dell’acqua, quelle “strighe”, scie di luce che dai canali si riverberano sulle finestre e sui soffitti delle case, nella dolce controra, non sono forse riprese sapientemente nei vetro soffiati, che ricordano tramonti infuocati sui mosaici e trasparenze mattutine?
Domani 12 navi, piene di gente che non avrà tempo né modo di conoscere tutta questo prodigio, perduta com’è nella simulazione temporanea di una ricchezza che non possiede, quella dei peggiori reality e cinepanettoni, quella di visitatori di una Disneyland – che non occorre nemmeno visitare tanto la si fotografa dall’alto come fosse una costruzione per bambini ingrati e capricciosi, che si può buttar giù con una manata – lanciano una sfida perversa alla città e alla civiltà, per riaffermare la potenza di quella barbarie cui quei primi abitanti, come uccelli acquatici, erano sfuggiti, costruendo una utopia in terra.