Oggi a commento di un mio post sul caso Richard Ginori la leggendaria fabbrica di porcellane della quale il Tribunale di Firenze ha dichiarato il fallimento, qualcuno mi ha rimbrottata di sconfinare nel futile, come certe anime belle che possono permettersi di preferire, per censo ed origine, le brioche alle pagnotte.
È un gran brutto moralismo quello che si ammanta di concretezza e pragmatismo per dire che diritti e bisogni devono necessariamente sottostare a gerarchie e primati, che possono essere segmentanti, gli uni fondamentali, gli altri invece ridotti ad optional, tanto da diventare alienabili e rinunciabili.
È brutto e iniquo, perché condanna chi poco ha a lottare per mantenere il poco e non per aspirare al di più, perché aumenta le disuguaglianze limitando il riconoscimento dei diritti a quelli di sopravvivenza fisica, superiori a quelli morali, intellettuali, culturali, legittimamente spettanti a chi li possiede, a chi li ha ereditati e li trasmetterà, a chi se li può comprare.
È brutto e osceno perché divide il mondo e la felicità – inesorabilmente e implacabilmente – tra chi è obbligato a un tozzo di pane nella bruttezza e chi invece, segnato dalla fortuna e dal privilegio, ha anche facoltà di godere dell’abbondanza nella bellezza.
Quella condanna alla pura sofferta sopravvivenza, a una soddisfazione e a uno star bene “limitato” e elargito, fanno scuola in questi tempi di primato della penitenza, del sacrificio e dalla necessità. E godono di alcuni laboratori esemplari e sperimentali. Uno di questi terreni di coltura dell’ingiustizia, un gabinetto di produttori di mostri ingiuriosi è diventata Venezia: si fa un test dell’oltraggio proprio là, nella città più speciale e fragile e se funziona, lo si può replicare festosamente ovunque, che è il prezzo da pagare a quella che con acrobatico eufemismo chiamano conservazione attiva del territorio, o peggio, valorizzazione, una caccia spietata a ogni immaginabile angolo della terra per tradurne la qualità in denaro e profitto, distruggendo la foresta pluviale per fare vassoi, paesaggi per trasformarli in potenziali hamburger, valli in villaggi a schiera.
A Venezia a questi processi della teocrazia del mercato volevano innalzare in idolo molto alto, più alto del campanile. Ma non in Pazza San Marco per carità, perché la valorizzazione secondo chi ha si fa nei posti di chi invece non ha, lontano dagli occhi, che potrebbero esserne offesi. Non abbastanza in questo caso perché la torre – voluta da un sarto novantenne smanioso di lasciare un’impronta, da un’amministrazione avida di quattro soldi per lasciare l’orma della sua efficienza e da una manica di quei futuristi che vogliono imporre la bruttezza della speculazione come ennesima pena per gli sfigati – sorgerebbe sì a Marghera pesando con la sua magniloquente e idiota megalomania su tre falde acquifere e su terreni contaminati da una industrializzazione becera e insostenibile, ma si vedrebbe stagliarsi in altezza sulla linea dell’orizzonte più su dei campanili e delle ciminiere a eterno monito che il dio denaro è più potente di tutti gli altri.
Un trappolone lungo come un pennacchio cui sembra impossibile sia caduto anche qualcuno in buonafede: un milione di metricubi, per la cui realizzazione è previsto un investimento di circa 2,1 miliardi di euro, che si erge con una struttura, alta 66 piani formata dalla sovrapposizione di più cerchi che uniscono 3 torri, nelle quali sono previsti alberghi, ristoranti, appartamenti di lusso La torre in realtà sarebbe il totem disgraziato di un complesso urbano con circa 35.000 mq di residenze, 25.000 mq di alberghi e ristoranti, 115.000 mq di servizi, direzionale e commerciale, 60 ettari di area verde e circa 100.000 mq di parcheggi, oltre un vasto groviglio di infrastrutture per la mobilità. Il tutto contro una manciata di “schei” al Comune per l’acquisto dell’area e la promessa di dare lavoro, secondo i promotori, a un numero variabile e flessibile, come è di moda, di addetti per la costruzione e poi di lavoratori dell’indotto. I capitali investiti sarebbero interamente privati sebbene non si sappia chi li erogherà e il profumo di patacca arriva fin da Parigi dove sarebbero già in vendita gli appartamenti e i loft che si prevede di costruire, ma anche dove l’autorevolissima Accademia di Iscrizioni e Belle Lettere ha approvato una dura mozione in cui si legge che “a proposito della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano, oggetto di studio di molti dei suoi membri e bene comune della civiltà europea, l’Accademia è vivamente preoccupata per le minacce che pendono su Venezia e la sua Laguna”, e che “spera che il Palais Lumière non venga mai costruito”.
Comune, Regione, autorità locali e nazionali, come le fameliche pantegane di Venezia hanno abboccato al miserabile pezzetto di formaggio fatto annusare dietro al trappolone e tante volte ne abbiamo parlato su questo blog, molto ingiuriati da fan di bocca buona o meno buoni interessi privati. E lo credo che hanno abboccato: la mano pubblica avrebbe dovuto “limitarsi” a vendere l’area di sua proprietà (circa 20 ettari) e ad agevolare le “pratiche burocratiche” per rendere possibile l’intervento, ostacolato da vincoli e destinazioni alternative. Ma soprattutto per dar corso a acrobatici equilibrismi lesivi della legalità, compresa l’esplicita violazione di leggi statali quali quelle per la sicurezza del traffico aereo e quelle per la tutela del paesaggio e le prescrizioni della pianificazione paesaggistica e urbanistica vigente.
A volonterosi e misteriosi benefattori privati spetterebbe dunque anche la bonifica dei siti, le opere infrastrutturali, tutto il contorno di una cittadella artificiale intorno al minaccioso minareto.
Ma come spesso succede con le illusioni in svendita, è successo che in parecchi in malafede e qualcuno invece in buonafede ci credessero, finché la patacca si è rivelata nella sua pacchiana epifania.
Non esiste un progetto di fattibilità, per ammissione della stessa Amministrazione comunale, costretta a chiudere il bilancio senza l’iniezione economica della cessione delle aree, dei 20 milioni di anticipo pattuiti, Cardin sarebbe disposto a versare solo 800 mila euro, lo stilista si è tirato indietro anche sul promesso tram di Marghera, insomma la torre crolla come fosse di carte, anche per la mancanza di quelle che dovrebbero accompagnare transazioni, progetti e preventivi trasparenti e condivisi.
Così, sprezzante, il trevigiano che aveva fatto fortuna in Francia e voleva tornare a umiliare la terra d’origine con la sua megalomania, si dice pronto a trasferire la sua visione non in Dubai dove sarebbe congruamente ambientata, ma in Cina, come ennesimo schiaffo dimostrativo all’ottusa Serenissima. Ma prende tempo sei mesi, durante i quali, forse, potrebbe definire il piano finanziario, forse, potrebbe perfezionare per sua parte l’accordo di programma, forse, potrebbe fare qualche cauta controproposta sull’unico ostacolo piovuto dal mondo delle leggi e del buonsenso, quello opposto dalla Sovrintendenza grazie a un vincolo paesaggistico finora colpevolmente taciuto e sottovalutato.
C’è da sperare dunque che Venezia sia salva da un doppio scempio: quello della legalità, violata perfino dal Presidente della Repubblica il quale come la stampa locale ha più volte riferito senza essere smentita, è intervenuto per far sì che venissero rimossi i vincoli che impedirebbero la costruzione della torre nell’area prescelta. E quello del territorio, anche per via dell’enorme spreco di risorse – e in primo luogo di suolo – che la scelta sciagurata comporta: abbandonare qualche decina di ettari alle iniziative immobiliari del gruppo franco-veneto significherebbe non solo una dissipazione gigantesca di risorse pubbliche ma impedire interventi essenziali per riorganizzare in modo corretto e lungimirante una vasta porzione dell’area Veneziana, messa sotto vincolo non solo formale ai voleri e ai disegni di un privato.
Si è importante fermare questa torre che viene rovesciata simbolicamente come una testa d’ariete per abbattere le difese di un territorio e dell’interesse generale, della storia e della cultura di una città un tempo accogliente e generosa, cosmopolita e viva, sempre più soggiogata da una mercificazione oscena che allontana i profitti e i benefici da chi dovrebbe goderne.
Se lo devono ricordare i cittadini, quelli di Marghera prima di tutti: ciò che ti viene tolto non è più tuo, nemmeno la dignità offesa da chi crede che un territorio bruttato sia condannato a tollerare altra bruttezza. Se lo devono ricordare i cittadini italiani, quello è un test, l’offesa a Venezia, la liquidazione del suo territorio e perfino del suo orizzonte verrà ripetuto e ripetuto, in fondo è successo in Sardegna, succede con le fabbriche, succede con il talento e con il lavoro. Se lo devono ricordare quelli che pensano che chi ha gestito la cosa pubblica, rappresentanti eletti e governi, non hanno saputo tutelarla e allora è meglio vedere cosa sanno fare i privati. E che preferiscono dimenticare che le speculazioni non prevedono ridistribuzione di benefici, che il mecenatismo peloso è solo un aspetto più educato di accumulazione e profitto, che non è buono, non è ragionevole e nemmeno obbligatorio cedere al ricatto del pane, di un lavoro magari precario, certamente dequalificato, in cambio di diritti compreso quello alla bellezza, alla memoria, al futuro. Se lo devono ricordare quelli che ritengono che in tempi di crisi non si possa essere schifiltosi, che occorre prendere tutto quello che arriva dalla globalizzazione e dal mercato, che in mezzo potrebbe esserci del buono, trascurando che così si fa del proprio paese sempre più povero una discarica di oggetti e idee di plastica ma vecchi, inutili e velenosi.
Ce lo dobbiamo ricordare tutti, l’antidoto è riprendersi i diritti, le scelte, la sovranità.