Sede di produzione di maschere fin dal Medio Evo, nonché di collezioni private di questo genere di articolo (evidentemente resosi precocemente autonomo dalla sue funzioni sceniche, dal teatro al Carnevale, per assumere un singolare valore estetico), fin dal Cinquecento, Venezia sembra trasferire nella maschera in generale, non in una particolare maschera, un complesso di simbologie e di comportamenti culturali che sono di fatto indissolubili dall’immagine della città (come la gondola o il leone alato).
Vale quindi la pena di superare la repulsa iniziale nei confronti di questo elemento tra i più inflazionati nella promozione e pubblicizzazione di Venezia, per osservarlo con maggiore attenzione, riconoscendone i lati problematici e irriducibili ai luoghi comuni.
Maschera originale di Venezia è la Bautta la cui astrattezza costituisce la premessa tradizionale alle nuove forme assunte dalla maschera negli ultimi anni, ovvero all’insegna di un decorativismo ad effetto raggiunto con l’utilizzo di materiali poveri ma luminescenti, nonchè la combinazione di citazioni di estrazione eterogenea costruita intorno a un volto rigorosamente neutro.
Per l’assoluta assenza di caratterizzazione assunta da queste maschere, che sono anche le più fotografate durante il Carnevale (del quale forniscono ormai il biglietto da visita coreografico più attraente), esse vanno considerate non più maschere, bensì mascheramenti, venendo meno la funzione mimetica e identificatoria che rende la vera maschera il soggetto di un rito. La personalità svanisce certamente dietro l’eccitante esperienza mascheramento astratto, ma al suo posto non ne risorge un’altra che interagisca con uno specifico complesso di significati. Intanto l’anonimato e l’incognito garantiti dal mascheramento sublimano le funzioni trasgressive e a fondo sessuale connesse all’ambiguità della maschera.