‘Birdman’, ignorato dal giuria. Un mancato premio, un errore, che potrebbe costare caro al festival
(domenica 7 sett., sul treno Venezia-Milano)
Che voto dare alla giuria presieduta da Alexandre Desplat (uno di polso e di carattere, come s’è potuto vedere durante la cerimonia e la successiva conf. stampa) che ieri sera ha assegnato i leoni? Giuria di cui facevan parte tra gli altri Tim Roth, Carlo Verdone, Jessica Hausner, Philip Groening. Un voto di sufficienza tendente al buono, diciamo un tra il 6 e il 7, una media tra alcune scelte azzeccate e altre sbagliate. Voto che tiene anche conto delle colpe per omissione, per i premi che si sarebbero dovuti dare e non son stati dati. Il merito più grande è l’aver assegnato il Leone al film giusto, il migliore della competizione, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson. Se si pensa ai leoni sbagliati delle precedenti due edizioni, Pieta di Kim Ki-duk e Sacro GRA, non si può che essere soddisfatti. L’errore maggiore, e più grave, e gravido di possibili conseguenze, e che potrebbe costare molto caro al festival in futuro, è invece il non aver dato niente, neanche un riconoscimento minore, al bellissimo Birdman di Iñarritu, film che riesce a essere insieme popolare e altamente, elitariamente autoriale, con uno script stratificato, con una regia virtuosistica che procede per blocchi assai complessi in piano sequenza. Roba che ricorda il Sokurov di Arca russa o l’Hitchcock di Nodo alla gola. Ecco, di fronte a un film così, che se ha avuto recensioni buone sulla stampa italiana ne ha ottenuto di eccellenti su quella internazionale, soprattutto di lingua inglese, la giuria ha girato la testa dall’altra parte. O magari, pur apprezzandolo, non ce l’ha fatta a ritagliarli un posto nella lista dei vincitori. L’errore fatale non sta tanto nel non riconoscere un film meritevole – questo è fisiologico in ogni festival, con ogni giuria – ma nell’avere escluso dal palmarès una produzione americana di peso, l’unica sbarcata quest’anno al Lido, visto che i film nuovi e molto attesi di Paul Thomas Anderson e David Fincher si erano già involati verso Il New York Festival. Allora, già ti va di lusso che l’unico film americano grosso che sei riuscito ad avere (non si può dire altrettanto del pur interessante 99 Homes) sia un gran film, e butti via l’occasione di premiarlo? Che così gli americani, già perplessi su Venezia come piattaforma di lancio delle loro produzioni e ormai sempre più orientati su Toronto e Telluride, potrebbero incazzarsi di brutto e non mandare più niente in concorso al Lido le prossime volte. Gioiranno i tanti critici, critichesse e critichini di casa nostra che hanno in odio il cinema americano in quanto americano e imperiale, e in quanto votato all’incasso, al denaro e alla conquista del pubblico, esulteranno coloro che hanno in spregio Hollywood e la considerano la sentina di ogni vizio e corruzione e mercimonio, una puttana che pensa solo al dollaro (salvo poi sdilinquirsi cinquant’anni dopo alle retrospettive di film americani che cinquant’anni prima avrebbero massacrato. Ecco, un film americano è bello solo a regista abbondantemente morto e debitamente sottoposto a restauro: il film, non il regista). Ma a perderci sarà il festival, che rischia di scivolare sempre più lontano da Cannes. Il quale invece l’America la tiene d’occhio e in gran considerazione, altroché. Perché lì le giurie sono mediamente meno aristocratico-autoriali e più sensibili ai film audience-oriented. Così lo scorso maggio Cannes ha sì premiato un film per niente facile e altamente austero come il turco The Winter Sleep (oltretutto lungo più di tre ore), ma ha dato spazio nel palmarès anche a Foxcatcher, ottimo film dell’americanissimo Bennet Miller. Che a Venezia sarebbe stato probabilmente ignorato dai giurati come dai signorini della critica utracinefila e radical-snob, quelli che quest’anno chissà perché sono caduti innamorati del Pasolini di Abel Ferrara, apprezzandone perfino gli scambi in friulano-inglese tra mamma Susanna e Pier Paolo, chiamato Pierut. Ora, non dico vendersi agli americani, ma neanche sbattergli la porta in faccia così. Il torto fatto a Birdman rischia di oscurare anche le scelte eccellenti della giuria, che ha azzeccato il Leone d’oro al film migliore in concorso, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, e il premio speciale a The Look of Silence di Joshua Oppenheimer. Quanto agli altri premi, ho già detto e scusate se mi ripeto e insisto: così così il Leone d’argento a Konchalovsky per Le notti bianche di un postino, sorprendente per freschezza e fluidità narrativa, incantevole, ma anche ruffianissimo e paraculissimo con i suoi bambini, postini e ubriaconi così simpatici e strappa-applauso. Quando ho sentito Carlo Verdone dire (in un video sul sito del Corriere della sera) che lui avrebbe dato a Andersson il Leone d’argento per la regia e quello d’oro a Konchalovskij, mi son messo un attimo le mani nei capelli (solo un attimo, poi mi son ricomposto subito). In quello slot lì, il Leone d’argento, ci stava benissimo Iñarritu, oppure il visionario Tsukamoto (la cui esclusione dai premi era però scontata, visto l’autentico, strutturale, profondo, irriducibile estremismo del suo cinema). E torniamo al problema Birdman. Dico, era proprio necessario che entrambi i premi per le migliori interpretazioni andassero ai protagonisti di Hungry Hearts Alba Rohrwacher e Adam Driver? Anziché dare la Coppa Volpi a lui non si poteva tenerla libera per Michael Keaton? Sarebbe stata una scelta ineccepibile, avrebbe lanciato l’ex Batman nella stagione dei premi americana, e là negli Stati Uniti sarebbero stati contenti per lui e grati a Venezia. Invece avanti così a farci del male. Gli altri due errori della giuria li conosciamo, se n’è già parlato da queste parti, anche se avranno per fortuna conseguenze meno pesanti per il festival. Il primo è il premio per la migliore sceneggiatura all’iraniano Ghesseha, l’altro, sciaguratissimo, il riconoscimento speciale della giuria al turco Sivas, di compiaciutissima violenza e insostenibile turpiloquo, peraltro reso ridicolo da un sottotitolaggio in italiano da dementi (quello che in inglese era ‘a fucking day’ diventava, per dire, ‘una giornata vaffanculo’: è stato uno dei guilty pleasure di Venezia 71). Vedendo sul palco il giovane regista turco ringraziare (in turco), ho pensato a un altro giovane regista cui l’anno scorso a Venezia la giuria non ha dato invece uno straccio di premio nonostante avesse portato un film molto, molto bello come Tom à la ferme: il québecois Xavier Dolan. Che poi il maggio scorso se l’è accaparrato Cannes attribuendogli giustamente un premio importante per Mommy. È che lì son più furbi, ecco.