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Venti chilometri di passione - Capitolo 2
Creato il 23 maggio 2014 da Lorenzo Zuppini @lorenzozuppiniMia nonna Loriana per fortuna non ha mai iniziato a fumare, forse anche perché quando era giovane lei le ragazze che fumavano non erano ben viste, o almeno così credo d’aver capito. Mi ha raccontato la nonna che decisero di comprare casa alle Focette in pochissimo tempo e soprattutto perché in quel posto regna la pace perenne, nonostante la casa sia adiacente alla spiaggia e quindi al lungo stradone che parallelamente la percorre. Fu questione di pochi giorni, andarono una sera al mare, dopo aver chiuso il negozio, e firmarono l’atto di acquisto dell’immobile.
Erano decisamente altri tempi, tempi d’oro in cui alcuni potevano permettersi di comprare una seconda casa in quel posto senza farsi tanti problemi, senza darsi pensieri. Erano tempi sicuramente in cui si viveva più spensieratamente ed in cui le persone vivevano osando, senza temere un eventuale insuccesso, cosa che invece oggi ti porta al suicidio.
Le ville attorno casa sono cambiate, non tutte ma alcune sì, mentre è rimasto uguale il bagno in cui andavano i miei nonni con mia madre e mio zio piccoli e in cui andiamo tutt’ora noi, io con la mia famiglia. Bagno Panoramic si chiama. È molto grande. La nostra cabina è la numero otto e la tenda la numero due. I proprietari attuali non sono i fondatori del bagno, ma bensì i secondi. Sono vecchi e brontoloni, soprattutto il marito che è molto gobbo e sempre incazzato per qualche arcano motivo. Ricordo che una volta, avrò avuto dodici-tredici anni, mandai a fanculo la proprietaria per via di una ramanzina che mi aveva impartito forse per degli schiamazzi dopo pranzo. In effetti hanno sempre avuto dei motivi per tenermi sulle scatole.
C’è il bar in mezzo alle tre file di cabine, è stato ristrutturato qualche annetto fa, adesso è più curato e più moderno, ma i prezzi rimangono alti, davvero molto. Sono sicuro che loro se ne approfittano perché il novanta per cento dei clienti, per comodità, preferisce servirsi lì anziché portarsi il paniere da casa con pranzo e merenda.
Quando ero più piccolo amavo passare le giornate seduto coi miei amici ai tavolini che ci sono alla fine di ogni fila di cabine, non al bar, lì mi sembrava di avere costantemente gli occhi dei baristi, tra cui quelli della proprietaria, puntati addosso.
Chiacchieravamo, davamo fastidio alle amiche femmine e giocavamo a carte. Poi, ad un certo punto del pomeriggio, spuntava mia madre da dietro un angolo e mi diceva di tornare un po’ alla tenda perché “non ero in una pensione” e dovevo stare anche coi miei genitori. Arrivavo alla tenda, salutavo chi c’era e, con la scusa del caldo, scappavo in acqua, o di nuovo con gli amici, o con mio padre che ama stare a mollo in mare.
Quando venivano sulla spiaggia anche i nonni, ogni tanto trascinavo il nonno Adriano in acqua e lui accettava, anche se di malavoglia perché non sapeva nuotare. Una volta, mentre facevo il bagno con lui, mi allontanai nuotando, lui non potendomi seguire mi richiamò, io non tornai subito verso la riva e appena mi avvicinai ricordo bene che mi redarguì, con le sue sopracciglia enormi che gli rendevano l’espressione del viso terribile quando si incavolava e dolce quando invece era rilassato. Aveva affibbiato un soprannome a me e a mia sorella Francesca, rispettivamente “senzatonsille”, per via della rimozione delle mie tonsille avvenuta in tenera età, e “cacasego”, per via delle lacrime facili della Checca e della sua propensione a piagnucolare per tutto.
Ho due foto in camera mia a Pistoia di mio nonno al mare, una lo ritrae sulla spiaggia coi suoi RayBan dalla lente celeste a fare le parole crociate, l’altra è di diciotto-diciannove anni fa e lo ritrae con me in braccio al giardino del Benelli, uno spazio verde vicino casa nostra dove ci sono giochi per bambini e dove io ho scorrazzato per diversi anni.
Da parte di sua figlia, io sono l’unico nipote maschio e credo di aver goduto di qualche trattamento, non so, privilegiato forse. Ovviamente non perché volessero più bene a me che alle mie sorelle, ma forse perché le loro attenzioni per un ometto le concentravano solo su di me, mentre quelle per una femminuccia la dividevano per tutte e tre le mie sorelle, Francesca, Chiara e Sara.
Quando venne ricoverato all’ospedale per il rilevamento del tumore ai polmoni ricordo bene che lui ci disse che sapere che non sarebbe più uscito da quella stanza, se non per esser portato al cimitero. Io, come faccio spesso, finsi di non vedere la realtà, sperai che stesse esagerando e tirai avanti.
Dopo cinque giorni circa di ricovero, una sera ebbe una crisi respiratoria. Io ero a casa, mi avvisarono e corsi all’ospedale al suo capezzale. Lo trovai con un’orrenda maschera sul viso che lo aiutava a respirare. Quest’affare era talmente stretto al suo viso che ad un certo punto gli ruppe il setto nasale creandoci un solco.
Quella sera mi sedetti di fianco a lui, aveva le braccia stese di fianco al corpo, gli presi la mano sinistra tra le mie e iniziai a piangere, lui mi vide e me le strinse. Quella scena rappresenta esattamente ciò che ha sempre significato il nonno Adriano nella vita della mia famiglia: colui che ci confortava nei momenti bui anche se, in questo caso, era lui che stava male, stava morendo.
Gli cambiarono maschera, gliene misero una ancora più grande, lui faceva sempre più fatica a respirare e ad inghiottire le medicine, sotto forma di pasticche, che i medici gli somministravano.
La mattina di domenica diciassette maggio morì.
Quella mattina andai, come tutte le settimane, a giocare la mia partita di pallone e, una volta fatta la doccia, all’ospedale da lui. Non credo per niente a chi dice “meglio così, stava soffrendo”, mio nonno riusciva a darmi moltissimo anche da quel cavolo di letto d’ospedale e non so cos’avrei dato per farlo guarire.
La nonna Loriana è una anziana energica, fin troppo alle volte. Ci riconosce come la sua famiglia, sa di aver creato, in parte, la famiglia che mi ha cresciuto, sa che noi abbiamo bisogno di lei oggi più di ieri, in particolar modo dopo la scomparsa di suo marito, nonno Adriano.
Sono convinto che i nonni in una famiglia non servano solo come appoggio organizzativo, talvolta economico, ai genitori, solo come mensa o asilo dove parcheggiare i figli piccoli, piuttosto come baluardo, come totem attorno al quale stringersi mentalmente, spesso anche fisicamente, per ritrovarsi tutti, ognuno con la propria croce, con i propri rammarichi e fallimenti.
Il calore che la famiglia unita riesce a sprigionare è quello vitale per ognuno di noi, quello che ti scalda veramente, che ti fa sentire parte integrante di un gruppo di persone, unite da vincolo di sangue, che mai ti lasceranno, su cui potrai sempre contare, chi più e chi meno, ma in generale un po’ su tutti.
Chi sono gli sbandati oggi?
Coloro che un tempo non ebbero la famiglia dietro di sé, pronta ad aiutare e a menare, sia in senso figurato che in senso materiale. Chi, da sempre, muore infelice e teme la morte? Chi non ha nessuno, chi ha fatto tanto per sé stesso fino a rimanere solo, senza affetti vicini che lo portassero per la mano fin dentro la sua bara, ultimo comodo letto dove tutti, inevitabilmente, dormiremo per l’eternità. “The family man” è un ottimo film natalizio che rispecchia questa realtà di cui sto scrivendo e in cui credo profondamente: un ricco quarantenne uomo d’affari che, la notte della vigilia di Natale, torna a casa solo ma col sedere poggiato su una Ferrari rosso fuoco. Una volta a casa si corica e sogna come sarebbe stata la sua vita se l’avesse improntata alla costruzione della famiglia. Vita scomoda, niente Ferrari o abiti dal sarto perché ha la precedenza mettere da parte i soldi per il futuro college dei bambini. Casa non in centro, sempre in disordine perché il concetto di ordine non è certo insito nella mente dei figli piccoli. Giornate stancanti e di non immediata soddisfazione, sensazione che però avverte ogni sera quando, messi a dormire i pargoli, si stende sul letto di fianco alla moglie e si compiace per quello che, a spese dei suoi personali progetti, sta facendo della propria vita: una missione.
Perché chi può dire che il matrimonio e il diventar genitori non lo sia? Nessuno ti addestra per queste speciali situazioni e difatti solo chi ha nel cuore questa vocazione riesce nel suo intento. Molti mollano a metà percorso o, peggio ancora, tirano avanti la carretta come meglio possono, distruggendo tutte le possibilità che irresponsabilmente avevano proiettato nella mente dei figli e precludendogli tutte le strade che avrebbero potuto percorrere.
Avere famiglia è, prima di tutto, sinonimo di sacrificio. Ovviamente i vari componenti, venendosi incontro, riusciranno pian piano a realizzarsi, ognuno alla volta, ma sarebbe fatale imporre sull’altro la propria volontà mettendolo spalle al muro: o me o te. La nonna Loriana e il nonno Adriano conoscevano bene questo concetto, e in più occasioni, in concreto, ne hanno dato la prova. Mio padre, un tipo che non ho mai visto commosso, continua a dire che la morte del nonno Adriano è stata una grave perdita per tutti noi. Il totem di cui parlavo prima.
Sapeva fare di tutto, aggiustava qualsiasi cosa, dal lavoretto di falegnameria a quello idraulico o elettrico. Dietro casa dei miei nonni c’è ancora il suo laboratorio: un garage, che prosegue fuori grazie ad una tettoia, dove lui metteva tutti i suoi arnesi e macchinari.
Spesso e volentieri vado là dietro per guardare quegli oggetti o anche per usarli, niente di che, anche solo prendere un pezzo di legno, levigarlo e poi spezzettarlo con la sega elettrica. Ricordo sempre quando mi raccontava che, da ragazzino, smontò e rimontò la macchina da cucire di sua madre, la severissima nonna Giulia, la quale, come sempre, gli tirò gli zoccoli addosso e pretese che glieli riportasse ai piedi.
Facevo molte cose con lui, dall’ascoltare i suoi racconti sulla sua vita quando era ragazzo, alle girate in bicicletta per poi approdare al supermercato, dove mi faceva usare una fantastica macchinetta che tenevamo sul carrello e che serviva per memorizzare via via il prezzo di tutti i prodotti scelti, così da risparmiare tempo alla cassa. Quando andavo dalle suore all’asilo, mi veniva a prendere con il suo secolare motorino, il Ciao. Mi faceva montare in piedi davanti a lui e, senza casco, mi riportava a casa. Una volta passammo davanti casa di un suo amico, questo era fuori, ci salutò e mio nonno lo risalutò facendogli un segnale con la mano per dirgli “ci sentiamo dopo”.
Ho questi ricordi in testa, dei frammenti di usanze che sono andate avanti per anni e di cui ricordo quasi niente, ma che sanno farmi commuovere ogni volta che mi tornano in mente.
Voglio davvero un gran bene al nonno Adriano.
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