
Siamo nell'inverno 1882-1883 e Giuseppe Verdi si trova a Venezia. Ufficialmente ha lasciato l'affetto della sua seconda moglie, il soprano Giuseppina Strepponi, per dare l'ultimo saluto all'amico Vigna, ormai moribondo. Questi, però, è solo un alibi e non compare nemmeno nel romanzo, se non in rievocazioni di tempi passati. In realtà, il Maestro, settantenne, ha compiuto questo viaggio perché sa che lì troverà Richard Wagner, il nemico, il metro del suo valore da una ventina d'anni, colui al quale la sua musica è stata sempre contrapposta. A preparare l'arrivo in città, è stato l'amico, il Senatore: non altrimenti definito sul piano anagrafico, questi è un amico vero, una figura umanissima, affettuosa e solerte. La famiglia del Senatore è la sponda che funge da coltraltare, diciamo così, laico, rispetto alla dimensione esistenziale e spirituale della musica di Verdi.
Il Maestro viene accolto in una Venezia brulicante di personaggi, taltolta veri fino alla commozione, anche quando pervasi da un generoso daimon tardo-romantico: come Italo, il figlio maggiore del Senatore, che vive una relazione adulterina con Bianca, moglie di Carvagno, medico di successo che gestisce da solo una clinica rinomata per la sua efficienza, figura che cresce nel corso del romanzo, di un'italianità esemplare (e, nella conclusione, anche pirandelliana); o Fischböch, titanico musicista tedesco trapiantato nella Laguna con la moglie e uno splendido figlioletto biondo, Hans, che attirerà l'attenzione di Verdi, ancora commosso dopo diversi decenni in seguito alla perdita del suo piccolo Icilio; o ancora Margherita Dezorzi, soprano e femme fatale, donna incapace di tutto (soprattutto di amare), fuorché di recitare e di cantare (e, così, di incantare).

La cultura musicale dell'uomo è ricca e articolata, riporta i nomi di compositori non più citati o rappresentati alla fine dell'Ottocento, ma Gritti non trova posto per la modernità nella sua vita: dotato di una memoria a breve termine imbarazzante, l'ultracentenario si fa sfuggire la vita che si ostina a vivere; va ogni sera, ogni sera, ogni sera a teatro da quando era giovane, salvo non ricordarsi neanche il titolo che va a vedere, e sostituire i giudizi di valore con sentenze più o meno moralistiche sulla musica di un tempo. Nell'uomo non brucia l'anima dell'arte, l'arte oggi, l'arte urgente, con le sue illusioni e anche con le sue disillusioni: tutto sembra imbalsamato con lui e non è pensabile che possa partecipare all'urgenza d'arte che tutti, ma in particolare Verdi, toccato dalla grazia o dalla dannazione del realismo sulla sua opera e dall'esigenza di misurare la sua arte, non in confronto a Wagner, ma in rapporto ai tempi.
Verdi, costretto a combattere una sì lunga lotta contro gli uomini e le epoche, non fu mai sottomesso; in ogni momento, qualunque fosse l'ora segnata dal grande orologio, egli rimaneva l'uomo del suo tempo, mai l'uomo di ieri, mai l'uomo di domani, sempre l'uomo d'oggi e, come tale, libero e solitario sul vertice del giorno. (p. 64)

Verdi di Franz Werfel è, prima che un romanzo storico, un romanzo-città: un omaggio commosso alla città veneta, a quella sponda della cultura mitteleuropea verso sud. Venezia non è solo teatro dell'azione - o dell'inazione - degli uomini e delle idee, sembra eternarsi in una dimensione dell'essere città - luogo di scambi, di residenza o passaggi fugaci - che supera l'affondo esistenziale di quel turista speciale che era Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia di Mann (che è del '13). È una città reale, vissuta (e non descritta) con i piedi, gli occhi e il cuore di chi vuol andare oltre, crocevia di prima e di dopo, di morte e di vita, affondo di un uomo, Wagner, nell'eternità della sua figura e della sua opera, parentesi di altro uomo, Verdi, nella carne e nello spirito della musica tardoottocentesca, che sembrava aver lasciato fuori dalla sua esistenza quotidiana nella lontana e appartata Genova.
