Pur non essendo in assoluto, tra i grandi letterati, l’autore che ha ispirato il maggior numero di opere (4 di Schiller – Giovanna d’Arco, I Masnadieri, Luisa Miller, Don Carlos – contro le tre del nostro – Macbeth, Otello, Falstaff – ; a ruota, con due a testa, Hugo e Byron), Shakespeare è stato di gran lunga quello che ha influenzato maggiormente la concezione teatrale e poetica di Verdi. Com’è noto, il Cigno di Busseto più volte ribadì in vita d’essersi avvicinato alle opere del Bardo di Stratford già dall’adolescenza, limitatamente alle possibilità che allora, nella provincia italiana, ci potevano essere di avere la disponibilità di un’edizione in italiano delle sue opere. Diffuso ed esaltato nel Nord Europa dal Romanticismo, in Italia Shakespeare dovette aspettare ancora alcuni decenni per iniziare a circolare regolarmente, anche per via di una certa diffidenza con cui la cultura ufficiale, priva ormai del prestigio di un tempo ma con intatta la boria, guardava il genio inglese, pur sempre un barbaro, agli occhi di chi si sentiva discendente diretto della letteratura classica e di poeti come Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso. L’idea di trarre un melodramma dall’opera shakespeariana iniziò a manifestarsi già all’indomani del trionfo scaligero del Nabucco. I primi lavori a suscitare tale idea furono Amleto, La Tempesta e Re Lear, quest’ultimo destinato a rimanere un’ossessione per un lungo periodo, con un libretto scritto da Cammarano nel 1850 e altri due successivamente, mai soddisfacenti per il maestro.
Ciò che non gli consentì di portare avanti alcuno di questi progetti fu probabilmente l’enigmaticità dei rispettivi capolavori shakespeariani, sicuramente le tre opere più aperte e universali del genio di Stratford. Una materia difficile da ridurre in melodramma, ma che sarà alla base della definitiva maturazione scenica di Verdi. Un esempio su tutti, il Rigoletto, tratto da Hugo, ma il più shakespeariano dei melodrammi verdiani, con la figura del gobbo di Mantova ad incarnare insieme la tragicità del patriarca shakespeariano e il grottesco del suo alter ego, il Fool, in un intreccio che fa pensare all’Amleto (i cortigiani, la vendetta, le giovani cooprotagoniste traviate e morte). Andò diversamente con quei drammi dalla struttura chiara e definita, incentrati su una tematica forte, il Macbeth e l’Otello. Il primo, com’è noto, andò in scena ben prima del progetto sul Re Lear e del Rigoletto, nel 1847 a Firenze. Il libretto originario di Piave venne rivisto poi da Maffei e l’Opera ebbe una seconda edizione a Parigi nel 1865. Della torbida epopea scozzese, Verdi colse con grande intuito gli elementi portanti: l’ambizione che s’impadronisce dell’ambizioso, fino a trasformarlo in un mero esecutore; la sospensione della vicenda tra la crudeltà verista e la dimensione soprannaturale; il rapporto di sudditanza di Macbeth nei confronti della Lady, vera protagonista del dramma.
L’Otello, primo frutto della collaborazione con Arrigo Boito (dopo la revisione del Simon Boccanegra del 1881), andato in scena a Milano nel 1887, confermò Verdi come il più profondo interprete operistico di Shakespeare, suscitando l’ammirazione di un wagneriano pentito come Nietzsche. Il compositore intuì che dietro la trama plurivoca (potere, gelosia, diversità), il vero motore del dramma era rappresentato da Iago, un Deus ex-machina diabolico, la quintessenza del male fine a sè stesso. Col Falstaff, l’ormai ottuagenario compositore si congedò dal mondo del teatro con la disincantata presa di coscienza della natura farsesca del mondo, della beffa che la vita cela dietro ad ogni dramma e ad ogni trionfo. Per farlo, si affidò per l’intreccio alla riesumazione comica de Le allegre comari di Windsor, mentre per delineare la psicologia del protagonista si rivolse alla fonte originaria, il dramma storico in due parti Enrico IV, atipico per la sua forte componente umoristica. In definitiva, oltre ad essere stato la fonte di tre capolavori, Shakespeare è stato per Verdi il punto di riferimento principale nella ricerca della sintesi tra poesia, musica e azione scenica, già dai cosiddetti Anni di galera. Non a caso, negli epistolari, il Cigno di Busseto a più riprese lo chiamò, con una riverenza venata di affettuosa ironia, il Papà, maestro nel mettere in scena la sostanza delle passioni umane e nel rappresentare senza ipocrisie il teatro del mondo.