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Verduno Pelaverga, duro e cantante

Da Marco1965_98 @foodstoriestwit
Chicco piccolo e croccante, grappolo classico a piramide e color prugna: si presenta così il Pelaverga quando è ancora attaccato alla vite. Per secoli è entrato nelle case dei contadini langaroli passando per la porta di servizio: era il vino del pasto quotidiano, quello che “tutti se ne facevano un po’ in cantina”. Lo vedevi spuntare di soppiatto lungo i filari di Nebbiolo o indisponente, sbucare qua e là, nella campagna verdunese. Poi è scoppiato il boom delle Langhe: le cantine moltiplicavano, i figli dei contadini prendevano coraggio e si dedicavano alla viticoltura, i disciplinari allargavano i territori in proporzione agli interessi dei produttori. Nel frattempo, il Pelaverga rimaneva lì: nascosto, timido e passivo all’incombere dei grandi vitigni locali. A suo favore aveva una tenace resistenza alla filossera e un’aurea altrettanto leggendaria: quel nome, così evocativo eppure chiaro alle orecchie del viandante, non lasciava adito ai dubbi. Di un inebriante succo bacchico si trattava. Eppure, ciò non era sufficiente.
Per decenni questo vitigno, portato dal Beato Sebastiano Valfré, cappellano di Vittorio Amedeo II, nella terra di Verduno, un gruzzolo di case dove un’ auto fa più rumore di un trattore, era rimasto nelle mani di un gruzzolo di affezionati che silenziosamente continuavano a produrne alcune damigiane per amici e parenti. Si diceva che contribuisse a stimolare il desiderio e a esaltare le virtù amatorie dei commensali. I più saggi ne apprezzavano soprattutto i toni speziati e, al contempo, fruttati, i bassi livelli tannici e quella leggera sensazione di ebbrezza che scalda il cuore senza appesantirlo. Per i più fedeli amatori era un compagno di vita, uno di quelli cui si resta affezionati per il temperamento bonario e docile. Niente di più lontano dal meditabondo e burbero Barolo, che tanta gloria aveva accumulato negli anni.
Nel 1972, alcuni avventurieri decisero di reimpiantare il vitigno di Pelaverga, lì dove la storia lo aveva collocato due secoli prima. Erano Domenico Morra di Cascina Mosca e le sorelle Burlotto del Castello di Verduno. La gente del posto prendeva Lisetta e Marina per pazze a impiantare un vitigno che, allora, non aveva alcun commercio. Il sacrilegio era pure doppio poiché a farlo erano due donne. Nel tempo, le analisi ampelografiche, enologiche e agronomiche hanno testimoniato la totale originalità del Pelaverga di Verduno rispetto al cugino saluzzese, per decenni considerato il vitigno-padre. Più piccolo l’acino, differenti le proprietà organolettiche. E gli enologi più forbiti non si sono fatti attendere a elogiare le caratteristiche di questo succo poderoso: un inconfondibile colore rubino cerasuolo brillante, virante al granato, che ricorda i semi di melograno; un profumo caratteristico e fragrante, che dal mirtillo alla fragola vira verso le note pungenti del pepe bianco e della noce moscata, fino a evocare i profumi della rosa, del rosmarino e del geranio. E’ come un corteggiatore al primo appuntamento, dicono. Si presenta con mazzi di fiori, regali e proposte dalle quali è difficile tirarsi indietro. Ammalia la sua conquista con parole dolci e gesti gentili che la lasciano sognare. Dicono che proprio per questo piace molto alle donne: all’inizio non si dichiara per quello che è. Solo in un secondo momento rivela le sue vere intenzioni.
Ne sapeva qualcosa quell’adultero di Vittorio Emanuele II. Sembra che a lui si debba la denominazione. La leggenda narra che in compagnia della giovane Bela Rosin nella tenuta estiva di Verduno, a lui faceva quell’effetto lì, parlando in piemontese, “plava la verga”. Glielo faceva rizzare? Duro e cantante.

inserito da pelatelli

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