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Vergogna di J. M. Coetzee: cane eri e cane tornerai

Creato il 16 ottobre 2015 da Alessiamocci

 Sudafrica, 1999. L’Apartheid è finito da cinque anni.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione è all’opera da quattro, impegnando il Paese ad autogiudicare il proprio passato. Senza sconti, senza ipocrisie, ma anche senza vendette. Agli occhi dei media esteri, si sta compiendo un’impresa senza precedenti: il miracolo sudafricano, la rara capacità degli esseri umani – di decine di milioni di esseri umani – di perdonare il passato e scrivere, tutti assieme, il futuro.

Il peggio è alle spalle, direbbe qualcuno.

Ma distruggere è più facile che ricostruire.

Leggo romanzi sul Sudafrica per ricordarmi che ogni essere umano è il sogno di un dio che non ci si sceglie, e che anche gli dei hanno incubi. Per ricordarmi che non tutto è un’equazione, in cui quanto più cattivo è il cattivo, tanto più buono sarà il buono. Che i gialli trovano il colpevole, ma non una soluzione al male che ha fatto germogliare in sé e nella vittima.

Sudafrica, 1999. David Lurie appartiene a un’etnia che la memoria storica ricorda come colpevole, intrappolato in un sogno che si è esaurito da cinque anni. A cinquantadue anni risvegliarsi è un trauma. E per ricostruire che cosa, poi?

David Lurie è bianco, agiato, professore alla Cape Town University. Il Sudafrica è cambiato e con esso è cambiata l’università: non più i classici tanto amati dagli europei, ma far lezione a classi di nuove generazioni che David non capisce e non ama. Scettico disilluso, cinico per sottrazione d’idealismo, sopravvive al suo tempo cercando di goderne quel che può. Donne, come ha sempre fatto. Ragazze, all’università. Una ragazza, Melanie, da cui David si abbevera con l’atroce candore di un vecchio che non riconosce il proprio peccato. Che male può esserci nell’amore, pur se di un vecchio?

Ma le cose vanno nel modo sbagliato (o giusto?), e il professore finisce sotto il torchio del giudizio collettivo dei suoi colleghi. Riconosce la colpa? La riconosce ed è pronto a espiare? Non importa che il suo pentimento sia sincero, basta che sia simbolico. Suvvia, Lurie, che mai ti costerà fare pubblica ammenda? Falla e tutto tornerà a posto! Ma in David sopravvive un barlume di idealismo, per quanto contorto. Dinnanzi all’ipocrisia, preferisce affibbiarsi l’etichetta del colpevole. Che non si redime. Perché dovrebbe? Per dare una formale ragione in cui nessuno crede? Meglio l’esilio.

E così David, bianco cinquantaduenne recidivo, finisce all’inferno: in campagna con la figlia Lucy, lesbica inselvatichita da una vita aspra come la terra che coltiva, circondata da quegli stessi negri che prima del crollo dell’Apartheid hanno scacciato i bianchi a colpi di massacri. Ma lì, almeno, David può essere se stesso. O almeno queste sono le sue intenzioni.

(Non sappiamo, né sapremo fino alla fine, e avremmo dovuto aspettarcelo fin dall’inizio, se Melanie in cuor suo fosse o meno una vittima. Afrique du Sud, c’est moi.)

Il titolo originale del romanzo, Disgrace, è più adatto a farci immaginare il nuovo David, residente in una campagna scontrosa quanto lui. Sembra di essere tornati ai tempi in cui i Boeri guardavano da lontano e con diffidenza gli autoctoni. Negri erano, negri tornano a essere – in questo paesaggio per nulla idilliaco e scevro dell’ottimismo che permea i discorsi sudafricani. Solo che stavolta David è caduto in disgrazia.

Non riesce a trovare una compagna di sventure nella figlia, che cocciutamente si rifiuta di far proprio il cinismo (tutto d’élite) del padre. I nuovi compagni dell’ex professore decaduto saranno i cani, ma non cani qualsiasi. Cani destinati all’eutanasia.

Il titolo del romanzo di J. M. Coetzee avrebbe potuto contenere la parola “cane”, ossessivo centro simbolico di tutta la vicenda. I cani che David aiuta a uccidere, in fatali atti di compassione, sono tante cose. Sono i negri dell’Apartheid, forse, all’inizio del romanzo, che l’arrogante animo umano dice di aiutare con il presupposto della loro inferiorità. Un presupposto reale, sia per i cani che per i black dell’apartheid, entrambi depauperati del proprio potere decisionale. Ma poi questi cani cominciano ad assomigliare a Lucy, “rimessa in riga”, a cui viene fatto vedere “a che cosa serve una donna”. Ed è quando i cani cominciano ad avere i tratti dei white, David incluso, che si sente il brivido che ci attraversa la schiena quando realizziamo che anche i carnefici sanguinano. E soffrono e cadono in disgrazia. E, una volta privati del loro potere, della loro sicurezza, fanno pena come ogni potenziale vittima. Ed è proprio allora, quando David abbandona ogni reticenza e si permette di provare compassione per i cani, che ucciderli diventa un gesto d’amore.

I cani, infine, sono cani.

Mi sono chiesta a lungo quanto il cambiamento dei lettori abbia cambiato la lettura di questo libro. Se nel 1999 il Cane poteva essere un’ottima metafora per la Vittima, oggi – tra movimenti animalisti in crescita, decrescita sostenibile anche, e vegetarismo e veganismo per motivi etico-empatici – il ruolo sarebbe sminuente. Il Cane ha acquisito diritti in sé, un ruolo in sé. Se nel 1999 la sofferenza patita dai cani del romanzo poteva essere un modo più digeribile di dare un’idea delle atrocità commesse durante (e dopo) l’Apartheid, oggi essa è atrocità in sé. E mi domando: serve ancora una metafora? Non potrebbe Vergogna/Disgrace essere diventato un romanzo semplicemente sull’iniquità in sé, si tratti di cani, etnie, generi, età della vita? Su chiunque stia dalla parte della museruola?

Perché, davanti alla consapevolezza che chiunque può cadere in disgrazia, il dialogo tra figlia e padre assume l’inquietante sfumatura di quello tra due bianchi in equilibrio sul bordo del burrone:

– Però è così. Bev e Bill non mi elevano semplicemente perché non esistono vite migliori o peggiori. Questa è l’unica vita che c’è. E dobbiamo dividerla con gli animali. Le persone come Bev danno il buon esempio. E io cerco di seguirlo. Di dividere con le bestie alcuni dei nostri privilegi umani. Non voglio reincarnarmi in un cane o in un maiale ed essere costretta a vivere come vivono i cani e i maiali sotto le nostre grinfie.

– Lucy, tesoro, non arrabbiarti. Sono d’accordo anch’io, questa è l’unica vita che c’è. E per quanto riguarda gli animali, è giustissimo trattarli con gentilezza. Ma cerchiamo di non perdere il senso delle proporzioni. Noi apparteniamo a un ordine del creato diverso da quello degli animali. Non necessariamente superiore, ma diverso. Quindi, se vogliamo essere gentili con loro, facciamolo per pura e semplice generosità, non perché ci sentiamo in colpa e temiamo una punizione.

J. M. Coetzee (1940) è uno dei più importanti scrittori sudafricani contemporanei. Vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, è anche saggista con alle spalle una lunga carriera accademica. Tra i suoi ultimi romanzi: Diary of a Bad Year, Summertime, The Childhood of Jesus.

Written by Serena Bertogliatti

Info

Edizioni in lingua

Disgrace, Penguin, 2008

Disgrace, Vintage Digital, 2015


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