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Il 20 febbraio i libici sono chiamati a eleggere i 60 membri della Commissione che dovrà redigere la nuova Costituzione. Ciò è confortante, dopo l’abissale ritardo sulle promesse dell’ormai lontano 2012 . (ved. LIBIA 2012:le Istituzioni in formazione) . Due anni sono stati necessari per decidere la procedura con la quale designare i membri della Commissione stessa: nomina all’interno dell’Assemblea Generale o elezione popolare diretta.
Nel frattempo il paese non ha visto realizzata la più urgente e importante delle misure: riportare le milizie armate sotto il controllo dello stato. Al contrario la loro interferenza con il processo democratico e la sicurezza quotidiana della popolazione si è incrementata ed è possibile intravedere “eserciti” locali. Alcune milizie rispondono all’autoproclamato parlamentino della Cirenaica, altre al governo locale di Misurata, alcune “collaborano” con il governo centrale che demanda loro compiti di polizia. Mentre nel sud del paese formazioni tribali si combattono, dando copertura volontaria o meno all’inserimento dell’Aqmi, l’ AlQaeda del Maghreb.
Bengasi: attentato in una scuola
Dal punto di vista umano è sconfortante la situazione in cui viene a trovarsi chi, specialmente a Tripoli, aveva appoggiato la ribellione del 2011 nella convinzione di sovvertire un regime e instaurare prontamente una democrazia secondo le prassi occidentali.
L’errore fondamentale in cui anche molti osservatori internazionali erano caduti è stato considerare la Libia allo stesso modo in cui Gheddafi la voleva e la presentava al mondo: un paese unito.
Il secondo, altrettanto fallimentare, di molta parte del popolo libico fu quello di ignorare che l’aiuto “liberatore” della Nato avrebbe lasciato dietro di sé odi radicali fra settori della popolazione, distruzione di strutture e di equilibri funzionali, e l’ancora sottovalutato inquinamento del territorio. Gli ordigni moderni distruggono sia nell’ immediato che nel corso del tempo sotto forma di malattie e malformazioni (ved. Eredità biologica della guerra) .
Se le cronache parlano quotidianamente di rapimenti e attentati anche a esponenti politici di primo piano, e l’ultima notizia è lo scoppio di un ordigno in una scuola di Bengasi con vari feriti tra i ragazzi, il
pericolo maggiore e immediato
è quello della frammentazione del paese,
che porta con sé la conseguenza di un nuovo
intervento di forze internazionali.
Rischio frammentazione
Il Financial Time ha rotto gli indugi con la domanda: è tempo di riconoscere in campo internazionale l’autoproclamato governo della Cirenaica?
La Tripolitania non ha risorse minerarie, presenta una forte componente di origine berbera che rivendica la propria specificità, ha la maggior concentrazione di popolazione libica in Tripoli, occupata soprattutto nel commercio e nel terziario. Senza un legame almeno federativo con la Cirenaica non potrebbe assicurare agli abitanti un livello di vita simile a quello di cui avevano goduto sotto il regime.
Il Fezzan dispone di riserve petrolifere e minerarie, ma il territorio si estende nel Sahara, la popolazione è un ventaglio di etnie fra le quali scoppiano incessantemente conflitti. Limitrofo al nord del Niger e al sud dell’Algeria, senza possibilità di confini presidiati, è esposto alla penetrazione dei gruppi jiadisti. L’Aqmi, AlQaeda nel Magreb, dopo la caduta di Gheddafi e la destabilizzazione del Mali, è accorso in forze. Gli scontri di questi ultimi giorni nella zona della capitale Sebha, da alcuni attribuiti alla “resistenza verde” dei gheddafiani, sono il probabile avviso di una tattica d’infiltrazione jiadista.
Rischio intervento internazionale
La possibilità, presentata come necessità, di un intervento di forze straniere “per combattere i terroristi” , pretesto che fa digerire alle opinioni pubbliche qualsiasi aggressione a un paese straniero , viene lanciata sul tavolo da una convergenza temporale, -o si dovrebbe dire una concertazione?- di appelli.
A fine gennaio nel furore dei combattimenti intorno a Sebha il capo della Difesa militare francese ammiraglio Edouard Guillaud dichiara in conferenza stampa la necessità di far intervenire una forza militare internazionale; prontamente il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius nega che l’opzione sia allo studio. Contemporaneamente Le Monde titola che il Sud della Libia inquieta sempre più i paesi occidentali.
Il 5 febbraio è il Ministro degli Interni del Niger, Massoudou Hassoumi , a dire in modo colorito che le potenze intervenute per scalzare Gheddafi devono fornire un servizio “après vente”,. Un tagliando di assistenza, insomma. Contemporaneamente a Parigi s’incontrano Fabius e l’omologo del Niger, Mohamed Bazoum; la nota del Quai d’Orsay recita: si è fatto il punto sulla situazione nel Sahel e in Libia e si è confermata l’identità di vedute su come affrontarla, con rinnovata fiducia nelle relazioni bilaterali dei due paesi.
Una quadriglia che ricorda i preparativi degli interventi di Hollande nel Mali e nella Repubblica Centrafricana, funzionali a far apparire un’iniziativa francese come la risposta a una chiamata in soccorso.
Spettacolarmente ambigua la dichiarazione del Ministro degli Esteri libico – che non dimostra irritazione alcuna per l’ingerenza diplomatica nigerina – “Non so se il pubblico, il governo o il Congresso accetterebbero la presenza militare straniera, ma si deve prendere in considerazione l’iniziativa francese” .
Facilissimo in realtà far accettare un intervento straniero. Sufficiente soffiare sul fuoco del pericolo dei gheddafiani e presentare come
Vista l’approssimazione con cui vengono presentati gli eventi delle cosiddette “primavere arabe”, alzare il livello del pericolo jiadista è funzionale allo scontro politico tra il National Forces Alliance (NFA) filo americano e guidato dal sempre più silenzioso Mahmud Jibril , e il Justice and Construction Party (JCP) dei Fratelli Musulmani guidato dal molto attivo Mohammed Sawan.
Con la Fratellanza già dichiarata fuorilegge in Egitto dal Feldmaresciallo (tale è il titolo onorifico conferitogli) AlSisi , gli altri partiti possono cominciare ad erodere la popolarità del JCP in vista delle elezioni fissate dalla road map politica in maggio o entro l’anno, secondo la celerità dei lavori della Commissione che si andrà ad eleggere il 20 febbraio.
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Scrive Gian Micalessin ora a Tripoli per Il Giornale: in Libia si mescolano e si confondono le voci che danno per imminente una nuova rivolta, un’ulteriore salto nel buio.
Forse non così presto? Ma per l’estate potrebbe prepararsi un buio molto fitto.