Verso un nazionalismo europeo
Gli uomini politici possono proporre tutte le combinazioni. Spetta ai popoli decidere se queste siano durevoli oppure no. La ragione firma invano i trattati che il sentimento non ratifica.
Fare gli Stati Uniti d’Europa può significare due cose: o lanciare una di quelle formule vuote con cui i politici invecchiati ringiovaniranno il loro vocabolario senza cambiare le loro azioni, oppure fondare una nazione europea, ossia un blocco di entità legate da affinità nel pensare e nel sentire, da interessi, da tradizioni e speranze.
Abituati a combattere gli eccessi del sentimento nazionale nei nostri avversari di destra, abbiamo nei confronti del termine nazionalismo una prevenzione ampiamente giustificata.
Tuttavia non esito a dire che è necessario suscitare un nazionalismo europeo.
Il nazionalismo infatti è proprio la coscienza d’una solidarietà. I nostri grandi storici di sinistra onorano quei re che, come Luigi VI, Filippo il Bello o Luigi XI, hanno sconfitto i particolarismo feudali e provinciali e fondato l’unità francese. Questi re non avrebbero mai avuto successo se nel Terzo Stato l’istinto provinciale non avesse a poco a poco ceduto all’istinto nazionale. Ad una solidarietà ristretta succede una solidarietà più ampia; al provincialismo, il nazionalismo.
E adesso, al nazionalismo dovrà succedere l’Europeismo.
Notate però che non sarebbe stato sufficiente, per spezzare i limiti meschini dello Stato di Borgogna o di Bretagna, un atteggiamento puramente negativo. Ci si passi l’anacronismo: gli artefici dell’unità francese non erano dei pacifisti. L’assenza di nazionalismo provinciale, se posso permettermi questo barbarismo, non bastava. Abbattere le frontiere significava compiere un atto del tutto vano. Gli uomini vivono in collettività. Lo spirito di corpo è per loro una cosa naturale. Volerlo sopprimere è un’illusione. Quello che è possibile, è trasferire questo spirito di corpo dalla provincia alla nazione, dalla nazione al continente.
E’ esattamente quello che dobbiamo fare oggi.
Ma, esattamente come settecento anni fa ci si poteva domandare quale fosse il comune fondo psicologico delle diverse province francesi e se esistesse, così oggi noi siamo molto imbarazzati se dobbiamo portare alla luce il fondo comune europeo.
Tuttavia, nelle sue Considérations sur le gouvernements de Pologne, Rousseau ci dice: “Oggi non ci sono più né Francesi né Tedeschi né Spagnoli né Inglesi, checché se ne dica; ci sono solo Europei”. E spiega: “Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi”.
Non mi si venga ad obiettare con l’assurda argomentazione reazionaria: “Rousseau ha conosciuto solo l’Uomo Astratto, non è mai stato sensibile alle differenze tra i caratteri nazionali”. Come se il più grande degli psicologi avesse potuto sbagliare su questo punto della psicologia!
Nella medesima opera Rousseau scrisse parole che potrebbero appartenere a Taine: “Il popolo deve far propria un’istituzione che è destinata a lui. Se non si conosce a fondo la nazione per cui si lavora, l’opera che sarà fatta per essa, per quanto eccellente sia di per sé, sarà sempre difettosa nell’applicazione, tanto più quando si tratterà di una nazione già istituita, i cui gusti, costumi, pregiudizi e vizi sono troppo radicati per essere agevolmente soffocati da nuovi semi”.
Detto ciò, esaminiamo la formula di Jean-Jacques: “Ci sono solo Europei”.
Fino a qual punto i gusti delle diverse nazioni d’Europa sono gli stessi e differiscono da quelli americani o asiatici? Qui occorrerebbe uno studio di psicologia sociale comparata. Secondo il programma tracciato da Rousseau, per i costumi e le passioni bisognerebbe svolgere un’indagine analoga.
Rilevando certi caratteri che si ritrovano in tutti gli Europei e solo in loro, si potrebbe fare una sorta di ritratto dell’Europeo-tipo, uno studio che non saremo noi a intraprendere. Tuttavia non si può evitare di esser colpiti dalla netta opposizione che esiste tra le consuetudini politiche di tutti gli Stati europei e quelle dell’America da una parte e dell’Asia dall’altra.
Mentre l’Asia è il luogo geometrico di tutti i dispotismi – quello di Stalin, di Mustafa Kemal o di Chang Kai Shek, ben poco innovatori rispetto allo Zar, al Sultano o al Figlio del Cielo – l’America rappresenta la negazione dell’autorità politica. È il denaro a fare e disfare i governi. Tra un partito e l’altro non c’è differenza sensibile per quanto concerne i princìpi. Ogni battaglia è battaglia d’interessi.
Da una parte, governo di ferro; dall’altra, governo dell’oro. L’uno e l’altro sono la forza, nient’altro che la forza.
E’ necessario sottolineare che tutte le nazioni non modellate dalla regola latina si sono sempre dibattute tra il dispotismo e la plutocrazia?
I capi di governo americani assumono facilmente l’aspetto di banchieri. E i capi di governo asiatici somigliano spesso a prefetti di polizia. Il prefetto di polizia perseguita i banchieri. Il banchiere corrompe i poliziotti.
Ciò fa sì che l’Asia non sia mai stata sicura per il commercio, e che l’America non sia mai stata severa per la fortuna economica.
Bisogna riconoscere qualche vantaggio al principio europeo che consiste nel collocare una casta intellettuale al di sopra di quelle che in India sono chiamate la casta dei guerrieri e la casta dei mercanti.
Qui da noi le più antiche insegne del potere sono la bilancia e la mano di giustizia. Mi piacerebbe vederle rappresentate sulla bandiera europea. Qui sta l’essenza del pensiero europeo: governare significa pesare gl’interessi che si affrontano, senza lasciarsi trascinare da nessuno di essi; significa levare una mano forte e pacificatrice tra le passioni in lotta.
I nostri due scopi: lo Stato, l’Europa
La storia politica della Francia nel XIX secolo può essere ricondotta allo schema seguente.
Il suffragio ristretto mette lo Stato tra le mani di una classe privilegiata. La massa reagisce. Il movimento democratico tende a indebolire lo Stato. In favore di questo indebolimento si sviluppano grandi forze private. In questo momento lo Stato passa, grazie al suffragio universale, nelle mani della massa. I repubblicani non si accorgono subito che lo Stato era diventato loro e che adesso non bisogna più indebolirlo, ma rafforzarlo. Di questo fatto essi si rendono conto solo da poco tempo. Di qui il movimento d’idee per la restaurazione dello Stato, per la riforma dello Stato.
In Inghilterra, gli eventi seguono esattamente il medesimo corso. Si tratta di un fenomeno europeo.
Sviluppo della nozione di Stato, sviluppo della nozione d’Europa: le due cose devono procedere di pari passo. Perché? Perché le grandi coalizioni d’interessi, alle quali si tratta di sovrapporre un arbitro, sono europee. Uno Stato che fosse soltanto francese non sarebbe dunque in grado di dominarle.
Davanti a un nemico che estende il suo fronte, l’esercito avversario deve estendere anche il proprio, se non vuole essere sopraffatto; analogamente lo Stato, se vuole riconquistare il suo primato, dovrà passare dal piano nazionale a quello internazionale.
Uno Stato che non sia europeo non potrà essere uno Stato a pieno titolo.
E’ molto probabile che la fondazione dello Stato europeo abbia origine proprio dalla battaglia che i partiti democratici combattono nei diversi paesi per ricostituire uno Stato forte. In questo caso, la questione della pace sarebbe risolta più o meno per caso, così come nell’ambito scientifico capita a volte che la soluzione di una questione a lungo ritenuta insolubile emerga casualmente nel corso di ricerche di tutt’altro genere.
Dunque l’idea di Stato porta necessariamente all’idea d’Europa. Ma se si segue il percorso inverso, se si parte dall’idea d’Europa, ci troviamo immancabilmente portati all’idea di Stato.
L’Europa conoscerà una vera unità solo quando sarà personificata in uno Stato. Se si redige una sorta di programma minimo di organizzazione europea, ci si rende conto che esso non può essere realizzato se non da un governo europeo.
Riconoscimento di una giustizia internazionale, impegno a sottomettersi alla sua giurisdizione. Organizzazione di un sistema sanzionatorio, impegno a collaborarvi. Divisione del lavoro produttivo tra nazioni, divieto di erigere barriere doganali, protezione delle industrie nascenti o crearne mediante agevolazione del credito. Ripartizione internazionale dei capitali e delle materie prime. Apertura di sbocchi mediante l’impiego ragionato del credito. Parificazione delle condizioni del lavoro, scomparsa della disoccupazione internazionale. Eliminazione delle crisi economiche mediante una politica creditizia centralizzata. Controllo demografico, costituzione di una rete internazionale di centri culturali. Si ritiene che tutto ciò possa essere realizzato attraverso le conferenze internazionali, per quanto frequenti possano essere?
Dei ministri degli Esteri che si riuniscono due, tre o quattro alla volta per regolare i loro affari, per intervenire negli affari degli altri, è una cosa che si è vista spesso nella diplomazia precedente la Grande Guerra. Ci sono stati famosi duetti, terzetti, quartetti, quintetti e anche ottetti. A volte si alloggiavano al secondo piano le potenze di second’ordine o potenze a interessi limitati, che svolgevano il ruolo di coro: o applaudendo (se per festeggiare l’accordo i “grandi” gettavano loro qualche briciola) o indignandosi per istigazione d’una grande potenza scontenta (che le eccitava con promesse e si serviva di esse per esercitare pressioni sulle altre grandi potenze).
Sì, tutto questo lo abbiamo veduto e non è necessario che ad ogni conferenza internazionale si esclami, come fanno i nostri giornali: “Ecco una nuova pagina nella storia del mondo!”
Un’osservazione importante: tutte le nostre conferenze del dopoguerra hanno avuto l’unico scopo di liquidare il passato, non di preparare l’avvenire.
Liquidazione del sistema dei trasferimenti, liquidazione dell’occupazione del Reno, liquidazione della Commissione della Sarre: notate che facciamo sparire tutto quello che mescolava un po’ le nazioni e le costringeva a creare, lavorando gomito a gomito, degli organismi internazionali di collaborazione. Infatti la Società delle Nazioni o la Banca Internazionale sono fenomeni di collaborazione diplomatica e finanziaria, non costituiscono una novità. La novità, per esempio, era rappresentata dai rapporti quotidiani del direttore della Reichsbank con l’agente generale dei pagamenti americano, oppure dall’amministrazione di una provincia da parte di commissari di diversa nazionalità. Adesso rimane soltanto, da far scomparire, l’internazionalizzazione di Danziga, dopo di che ciascuno sarà tornato a casa sua. Ci si incontrerà soltanto alle assemblee della S. d. N., in abito ufficiale e con le decorazioni.
Ma lo sapete che, quando saranno scomparsi quelli che io chiamo problemi di vita ordinaria e comune, la S. d. N. avrà da fare ancor meno che oggi? Notate infatti che, respinta ogniqualvolta ha voluto occuparsi della costruzione di un Protocollo o di una Unione doganale europea, essa si è dedicata alle questioni di liquidazione della guerra, che la assorbono in maniera quasi esclusiva.
Possiamo dunque dire: tutte le attività internazionali sono rivolte verso il passato e si rilasseranno a mano a mano che i problemi del passato verranno risolti.
Bisogna stupirsene? No!
Lo dico chiaro e tondo. Per governare l’Europa, non conto sui nostri ministri degli Esteri. Tutti i loro sforzi tendono a sbrogliare la matassa europea non per ricavarne un tessuto, ma per riprenderne ciascuno i propri fili e per non sentirsi più disturbati dai vicini. Il sogno di un ministro non è di avere le mani piene di grandi opere, ma di avere le mani libere, sì da poter più leggermente virare al soffio dell’opinione pubblica nazionale.
Dei ministri nazionali – arrivo a questa conclusione dopo che a Ginevra li ho visti sotto l’assalto di telegrammi provenienti da Parigi, Londra, Berlino o Tokyo, telegrammi pieni di istruzioni, brani di stampa, notizie di colore – dei ministri nazionali ossessionati dal terrore di dispiacere ai loro colleghi, ai loro giornali, alla loro maggioranza non saranno mai in grado di formare un governo sopranazionale.
Ci vuole più indipendenza.
Un governo sopranazionale dipendente dai governi nazionali, che a loro volta dipendono dai loro parlamenti, sarà solo un confronto di impotenze.
Bisogna assolutamente sottrarlo a tutti i capricci della politica interna di ogni singolo Stato e costituire un suo proprio dominio in cui esso sia sovrano. Ma questa separazione di un dominio nazionale riservato ad ogni Stato e di un dominio sopranazionale rimesso allo Stato federale europeo sarà vano, se saranno gli stessi uomini a esercitare l’uno e l’altro potere. Altro potere, altro personale.
* Bertrand de Jouvenel des Ursins (1903–1987), titolare di cattedre universitarie a Parigi, Oxford, Manchester, Cambridge, Yale e Berkeley, scrisse una trentina di trattati teorici di politologia e scienze economiche e sociali. Corrispondente presso la Società delle Nazioni, dopo la seconda guerra mondiale fu ardente promotore della riconciliazione franco-tedesca. Il brano che abbiamo tradotto proviene da un saggio apparso a Parigi nel 1930: Vers les Etats-Unis d’Europe.
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