di Elena De Santis
Nel corposo volume Verso l’infinito Jane Hawking – studiosa di letteratura e apprezzata scrittrice – ricostruisce minuziosamente i venticinque anni trascorsi al fianco di Stephen Hawking, il geniale astrofisico inglese autore del celebre Dal Big Bang ai buchi neri, una delle menti più grandiose e infinite che l’umanità abbia mai partorito. Dalla biografia (in Italia edita da Piemme) è stato tratto il film La teoria del tutto, su sceneggiatura di Anthony McCarten e con la regia di James Marsh.
Verso l’infinito, lungi dal risolversi nella scolastica biografia di un genio, è in primo luogo la storia di un incontro, una storia d’amore che parte dai banchi di scuola per arrivare all’altare e a un quarto di secolo di condivisioni. Jane intravede per la prima volta Stephen a una festa, l’impressione che ne ricava è tutt’altro che chiara e lineare, ma sente già qualcosa agire prepotentemente in lei; Stephen non ha certo il fisico di un atleta, è un po’ buffo, segaligno, impacciato, tutti aspetti che però non collimano con la sua personalità spiccata, col suo intelligente senso dell’umorismo e con l’energia vitale della sua parlantina. Il primo incontro effettivo risale all’estate del 1962: passeggiando con un’amica Jane osservò «uno strano spettacolo sul lato opposto della strada: un giovanotto camminava nella direzione contraria con un’andatura goffa, la testa bassa, il viso nascosto al mondo da una massa disordinata di lisci capelli castani. Immerso nei suoi pensieri, non guardava né a destra né a sinistra, ignaro del gruppo di studentesse dall’altra parte della via.», ma Jane ricorda anche una breve interazione ai tempi della scuola elementare, dove le si fissa l’immagine di «un bambino con una lunga frangia castana dorata seduto accanto al muro.» Il destino lavora per farli incontrare nuovamente il 1° gennaio 1963, alla festa di Capodanno. «Gesticolava con le lunghe dita affusolate mentre parlava – i capelli gli cadevano sul viso sopra gli occhiali – e indossava una giacca di velluto nero e un farfallino di velluto rosso.» Jane rimane per qualche tempo a osservarlo di nascosto, e affascinata lo sente discorrere con un amico della sua laurea a Oxford ottenuta col massimo dei voti, e della nuova attività di ricercatore in cosmologia a Cambridge; ben presto gli sguardi dei due si incrociano e, fatte le presentazioni, il primo seme è gettato (la festa si chiude con lo scambio dei numeri e degli indirizzi). È Stephen, da bravo cavaliere com’era in uso ai tempi, a farsi vivo per primo, invitandola alla festa del suo ventunesimo compleanno (gli Hawking abitavano in Hillside Road a St Albans) e, tempo dopo, prima a teatro e poi al ballo di fine anno a Cambridge. Già in questa fase preliminare, che precede di molto la relazione, Jane ha modo di assistere alle prime piccole défaillance di Stephen. «Continuava a inciampare e non riusciva ad allacciarsi le scarpe.» È l’amica Diana a informarla: «Gli hanno fatto un sacco di esami spaventosi e hanno scoperto che soffre di una malattia tremenda, incurabile, che porta alla paralisi. È un po’ come la sclerosi multipla, ma non è una sclerosi multipla, e ritengono che non abbia più di un paio d’anni di vita.» Lo shock venne in un certo senso attutito dall’incredulità, e così Jane sintetizza il suo stato d’animo di allora: «La mortalità era un concetto che non giocava alcun ruolo nella nostra esistenza. Eravamo ancora abbastanza giovani da essere immortali.»Contro il temibile spettro della malattia degenerativa Jane lasciò che prevalesse l’amore, l’affinità, la compatibilità. Il matrimonio si celebrò nel luglio del ’65, e il primo figlio (Robert George) arrivò nel maggio del ’67. «La nostra fu l’ultima generazione per la quale gli obiettivi primari erano piuttosto semplici: gli ideali di un amore romantico, del matrimonio, di una casa e una famiglia. La differenza per Stephen e me era che noi sapevamo di avere solo un breve lasso di tempo a disposizione per raggiungere quegli obiettivi.» Quello che si profilava “un breve lasso di tempo” si rivelò invece inaspettatamente una vita lunga, intensa e straordinaria. Certo Stephen attraversò profonde crisi depressive (crisi che piegarono la sua personalità, il suo senso dell’umorismo, facendovi insorgere un che di algido e di cinico), e per Jane non fu affatto facile convivere con un dramma così invalidante, ma entrambi seppero ribaltare gli svantaggi in vantaggi, la finitezza in infinito. La malattia del motoneurone non fu improvvisa ma subdolamente progressiva. Nei primi anni Stephen alternò picchi di gravità a fasi relativamente stazionarie, svenimenti e ricoveri improvvisi ma anche lunghi periodi di tregua (se così si possono definire quei frangenti di sollievo tra un attacco e l’altro, tra uno stadio della malattia e quello successivo). «La malattia, che sembrava sotto controllo, si rivelò di colpo nella sua vera, spaventosa violenza. Lo spettro in agguato sbucò fuori dall’ombra e lo prese alla gola, lo travolse, lo scosse come una bambola di pezza, lo schiacciò sotto i suoi piedi e fece echeggiare la sua tosse stizzosa per la stanza, riempiendola dei suoi rantoli affannosi e terrorizzati. Stephen era inerme nelle grinfie del nemico, e io non potevo far nulla per lui. Non ero preparata a quell’improvviso incontro col temuto potere della malattia del motoneurone, il partner fino ad allora invisibile del nostro matrimonio.» Stephen passò gradualmente dal bastone alla carrozzella e dalla tradizionale sedia a rotelle a un sofisticatissimo computer (vero e proprio braccio della sua sconfinata mente).Tra Stephen e la sua “sedia” interviene presto un’inscindibile simbiosi, una totale fusione, quasi una reciprocità: perduto l’uso del corpo – e progressivamente anche il movimento degli arti e financo dei muscoli facciali (un’impietosa e crudele paraplegia) – la “sedia”, invero un avveniristico computer in forma di sedia, diventa un surrogato del corpo, anzi un corpo vero e proprio, quella seconda possibilità che ha consentito a Stephen di vivere (e di sopravvivere), a dispetto di una stasi che pareva irreversibile; sconfitto, o meglio aggirato, il demone dell’immobilità, l’astrofisico (ma soprattutto l’uomo) si fa slancio, salto, volo. Jane lo assiste, ma di fronte al verdetto della malattia degenerativa è costretta all’impassibilità, all’impossibilità di poter fare di più, ed in questo senso la malattia è stata anche un po’ sua, non di riflesso ma frontalmente, quotidianamente, per un quarto di secolo, tanto quanto è durato il suo matrimonio con Stephen. La vita di Stephen e Jane è al contempo ordinaria e straordinaria: da un lato ci sono i problemi di tutti i giorni (uno stipendio per vivere, l’acquisto di una casa, l’educazione dei figli, i rapporti con le rispettive famiglie di origine, la cerchia delle amicizie, le terapie mediche e il va e vieni dagli ospedali) e dall’altro gli slanci, le aspirazioni e gli interessi legati alla ricerca universitaria. Jane si ritrova presto sola a gestire due figli piccoli e un marito pressoché immobile, condizione che non le consente di terminare in tutta tranquillità (ma è un sacrificio che compie ben volentieri) i suoi studi umanistici.
«Se naturalmente Stephen aveva bisogno del mio aiuto per molte delle sue esigenze personali, i bambini necessitavano del mio aiuto per tutti i loro bisogni. Erano ancora abbastanza piccoli da richiedere una presenza costante. Se il loro futuro era incerto per via delle condizioni di salute del padre, allora io, la madre, dovevo compensare quella situazione non abbandonandoli più dello stretto necessario.» E, come se non bastasse, Jane doveva anche fare i conti con le occhiate sprezzanti e offensive della gente, irritata dall’aspetto di Stephen e scandalizzata dalla loro unione; nel libro la Hawking rievoca un episodio avvenuto in ascensore: «…Mentre ridacchiavano stupidamente, io ero sempre più in pena. Avrei voluto prenderle a schiaffi e costringerle a scusarsi. Avrei voluto gridare che quello era il mio coraggioso, amatissimo marito e il padre di quel bel bambino, oltre che un grande scienziato, ma col mio riserbo inglese non dissi né feci niente di tutto questo: mi limitai a guardare dall’altra parte, occupandomi di Robert come se loro non ci fossero. Nessun ascensore superveloce, di quelli che viaggiano a dodici metri al secondo, ci ha mai messo così tanto per arrivare a terra.»
Tra i due è Jane ad avere i piedi per terra (ci sia consentito il piccolo gioco di parole); Stephen vola, proietta la complessità inafferrabile del suo ragionamento ben oltre i limiti consentiti, al di là dell’umano, nel profondissimo blu dell’insondato spazio-tempo (e più la materia vile del corpo lo costringe al suolo, più l’immaterialità leggiadra del pensiero lo sospinge in vetta, più in alto, e oltre). Stephen, tarpato nel fisico, spinge sempre più in là il suo pensiero cosmico, fino alle intuizioni rivoluzionarie sui buchi neri. Di borsa in studio in borsa in studio, tra interventi, lezioni, convegni e conferenze il suo nome non tarda a raggiungere la notorietà internazionale. Con il prezioso ausilio di Jane, a dispetto della stasi imposta dalla malattia, Stephen comincia a girare il mondo «ricercato nei circoli scientifici per la sua padronanza intuitiva di concetti complicati, la sua capacità di visualizzare strutture matematiche in più dimensioni e la sua fenomenale memoria.»Stephen Hawking, con il corpo ancorato alla terra dalla “gravità” della sua condizione, ha spaziato per tutta la vita cercando di comprendere l’intima struttura del tempo, non il tempo antropico e cronologico ma quello cosmico; le sue scoperte in seno all’astrofisica hanno cambiato il corso della storia, e tutt’oggi la sua lezione resta centrale per il cammino della scienza. Scienziato di fama mondiale, genio indiscusso, ma, come Jane Hawking ce lo ha restituito pagina dopo pagina, soprattutto un buon compagno di vita, un buon padre, un Uomo nel mondo.Elena De Santis
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.
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