Nefando corsaro,
brigante dei mille.
L’opinione del papa e dei clericali era sostanzialmente condivisa, anche se non così chiaramente espressa, da tutti i ricchi borghesi conservatori, specialmente quando Garibaldi, conquistata ormai l’unità e l’indipendenza per il popolo italiano, incominciò a preoccuparsi della sorte dei lavoratori e dimostrò chiaramente le sue simpatie per il socialismo. Quando si parla di Garibaldi socialista non si dive,, certo, intendere socialista nel senso moderno, marxista, della parola ma secondo i principi del sansimonismo che egli aveva nutrito da giovane.
GARIBALDI E IL SOCIALISMO
Idealità socialiste, infatti, egli aveva nutrito fin dal 1832, da quando, navigando per il Levante, incontrò a bordo della sua nave alcuni sansimoniani esuli dalla Francia e diretti in Oriente. Uno di essi, il Barrault, discusse lungamente col giovane marinaio nizzardo non solo le questioni di nazionalità, ma anche la grande questione dell’umanità. Garibaldi ne ritrasse quell’ampio spirito umanitario e quel profondo senso di giustizia sociale, che ne caratterizzarono sempre la vita. Finché durò la lotta per la liberazione d’Italia egli capì che era necessario mantenere contro gli oppressori stranieri e clericali l’accordo di tutti i ceti sociali, non assolutamente reazionari, fare, cioè, una politica di unità nazionale. Per questa ragione dovette molte volte chinare il capo dinanzi alla volontà di uomini che non stimava. Ma dopo il 1870 il suo atteggiamento divenne più decisamente favorevole al socialismo. Gli storici reazionari, per raggiungere gli scopi della politica anti-democratica delle classi dirigenti italiane di oggi, negano il socialismo di Garibaldi, perché egli non fu mai iscritto a un partito (che in Italia non v’era) e non conobbe la dottrina marxista. Ma i socialisti di questo genere, in quell’epoca, si contavano sulla punta delle dita. Garibaldi invece aderì con tutto il cuore alla lotta iniziata dai reparti d’avanguardia della classe operaia e dichiarò, ad esempio, la propria completa solidarietà con la Comune di Parigi e con la Prima Internazionale. Io sono con voi per la Comune, egli scrisse il 14 aprile 1871 al Bignami, direttore della Plebe di Lodi. Poco tempo dopo, il 21 ottobre 1871, egli così definiva i Comunardi, nella celebre lettera al Petroni: I soli uomini che in questo periodo di tirannide, di menzogna, di codardie e di degradazione, hanno tenuto alto, avvolgendovisi morenti, il santo vessillo del diritto e della giustizia. Né esitava a dire che, se lo avesse saputo, invece di partire dalla Francia, egli sarebbe andato a lottare coi combattenti socialisti, perché, aveva scritto il 22 giugno 1873 al Bizzoni, la caduta della Comune di Parigi fu una sventura mondiale. La Plebe di Lodi fu il primo giornale socialista italiano. Quando uscì per la prima volta Garibaldi scrisse al direttore la seguente lettera: “Il titolo di Plebe, con cui volete fregiare il vostro giornale è MOLTO ONOREVOLE. Dalla feudalità dei Baroni, a quella dei Monarchi; dai bravi di quell’epoca, ai nostri bravi moderni; la Plebe è sempre stata oppressa ed oltraggiata. Propugnandone i diritti, vi siete assunti una responsabilità grave. Ma voi vincerete, avendo da parte vostra la vera forza e la giustizia. Vi prevengo però che se non tentate di strappare la Plebe alle botteghe dei negromanti* sarà un’affare lungo. Un caro saluto del vostro GIUSEPPE GARIBALDI.” *(I negromanti com’è chiaro, erano quelli che vendevano, e vendono, Cristo pei loro interessi). Le simpatie di Garibaldi per l’Internazionale sono talmente note che è rimasta leggendaria, nell’Inno dei lavoratori, la frase ripetuta da Garibaldi in varie occasioni: L’Internazionale è il sole dell’avvenire. Garibaldi riprovava un sistema sociale nel quale l’uomo non poteva essere che vittima o reprobo, prostituto o martire ( a Bignami, 3 dicembre 1972). Egli proclamava fieramente: Anch’io sono membro della Associazione internazionale dei lavoratori e me ne glorio (a Campetti, 22 dicembre 1872. Infine, vecchio, il 20 dicembre 1880 dichiarava al Secolo: Il mio repubblicanismo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista. Garibaldi rispettò la religione, onorò i veri sacerdoti di Cristo, fustigò implacabilmente gl’indegni. Non solo dunque l’indipendenza e l’unità del territorio, ma anche l’elevazione sociale del popolo italiano e la sua fraterna collaborazione con gli altri popoli liberi d’Europa, costituivano il credo di Garibaldi, nemico d’ogni oppressione reazionaria e d’ogni guerra imperialistica. La sua grande figura rimase simbolo di libertà, di giustizia, di eguaglianza e giustamente la fecero propria e ne assunsero il nome i giovani che dal 1943 al 1945 lottarono per difendere il nostro popolo dall’oppressione nazi-fascista; giustamente l’ha fatta propria quel movimento politico di concordia e di unità nazionale che lotta oggi contro una nuova oppressione casalinga e forestiera. Quando alle vecchie confraternite artigiane, composte da operai e presiedute da padroni, cominciarono a succedere le società operaie classiste e le leghe di resistenza, non ve ne fu una, forse che non avessero Garibaldi come presidente onorario. E quando Erminio Pescatori fondò in Milano nel 1880 l’Associazione dei Figli del lavoro il primo nucleo di quello che, dopo due anni, sarebbe stato il Partito Operaio, Garibaldi inviò il suo saluto augurale. I reazionari attaccarono Garibaldi e dissero che aveva vissuto troppo. (IL CALENDARIO DEL POPOLO, giugno 1948, Garibaldi e la democrazia, nel 66° anniversario della morte dell’eroe.)
LA COMUNE DI PARIGI
Non siam più la Comune di Parigi
che tu, borghese, schiacciasti nel sangue;
non più gruppi isolati e divisi
ma la gran classe dei lavorator
che uniti e compatti marciamo
sotto il rosso vessillo dei Soviet,
di Lenin i soldati noi siamo,
siam la forza del lavor,
siam la forza del lavor.
In piedi, o proletari,
giunto è il dì della riscossa,
in alto la bandiera rossa
simbolo di libertà!
In piedi, o proletari,
giunto è il gran momento
di dire alfin chi siamo,
di dire cosa vogliam,
di dire cosa vogliam.
Vogliam la libertà,
pace, lavoro e pane,
vogliamo alfine redimere
tutta l’umanità.
Vogliamo che sulla terra
sia pace e lavoro,
vogliamo che sulla terra
non regni più il dolor,
non regni più il dolor.
Non siam più la Comune di Parigi
che tu, borghese, schiacciasti nel sangue;
non più gruppi isolati e divisi
ma la gran classe dei lavorator
che uniti e compatti marciamo
sotto il rosso vessillo dei Soviet,
di Lenin i soldati noi siamo,
siam la forza del lavor,
siam la forza del lavor.
Doman nelle officine
non si faran cannoni
ma si faranno macchine
solo per lavorar:
per lavorare il ferro
la pietra con la terra.
Questa sarà la guerra,
la guerra che vogliam
la guerra che vogliam!
Non siam più la Comune di Parigi
che tu, borghese, schiacciasti nel sangue;
non più gruppi isolati e divisi
ma la gran classe dei lavorator
che uniti e compatti marciamo
sotto il rosso vessillo dei Soviet,
di Lenin i soldati noi siamo,
siam la forza del lavor,
siam la forza del lavor.
-Anonimo-