Poi, in un pomeriggio con il sole ancora alto e un caldo strangolatore – dopo un’ora e mezza di aereo, quasi tre ore di treno e pochi minuti di navetta – ero arrivata in quello che, da bambina, chiamavo il paese fasullo.
Non era effettivamente un paese. Ma, allora, non potevo certo saperlo. Ricordo che ci trascorremmo una domenica pomeriggio, io e la mia famiglia, un un’estate di tanti anni fa. Tornavamo da una visita fatta a certi parenti – parenti che avevo sempre considerato sgraditi e che, già all’età di nove anni, mi avevano portato a concepire l’idea che, un giorno, mi sarei energicamente opposta affinché non prendessero parte al mio matrimonio, in modo da non poterlo rovinare né compromettere l’estetica delle foto (anche se, oggi, chiaramente, vista la mia situazione sentimentale, questo pericolo non si pone più). Il mio unico ricordo del paese fasullo si fermava a loro, al pomeriggio su un trenino rosa, al clima da festa paesana che impestava quel luogo, al mio domandarmi perché non ci fossero case ma costruzioni basse, tutte uguali e con le finestre sprangate. Avevo guardato con diffidenza le grandi barche e gli alberghi, i negozi e i bar, le giostrine e quel trenino rosa che procedeva carico di mamme e bambini.
Era domenica anche ora, come vent’anni fa. Soltanto, adesso, ero adulta – o almeno, formalmente lo ero – e mi aggiravo sola e incurante della folla allegra che infestava la passeggiata del porto turistico. E riflettevo sul fatto che l’unica cosa che era rimasta uguale, rispetto a vent’anni fa, era la mia malinconia. Sono stata una bambina malinconica. Un’adolescente malinconica. Un’adulta malinconica. Chissà se sarei mai guarita. Con il proprio modo d’essere s’impara a convivere. Ma, nel profondo, si spera sempre di potervi rinunciare, prima o poi.
Mi trascinavo per il porto, ripassando mentalmente cosa avevo messo nella sacca e cosa no. Mi pentivo di aver lasciato un certo libro sul tavolo della cucina . Cercavo di non pensare a Gabriele ma i suoi occhi dorati mi perseguitavano e mi facevano male. Poi, finalmente, arrivai.
Gli altri erano seduti a un tavolino di un bar qualsiasi, chiacchieravano e ridevano. Si trovavaino lì già da un po’: attendevano solo me. Un paio già li conoscevo. Tutti gli altri no. C’è stato un giro di strette di mano. Una stretta più fredda allo skipper. Avevamo litigato il mese scorso, mi aveva detto che stavo buttando la mia vita, dietro a un ragazzino che – tra le altre cose – non sarebbe tornato più. Dopo quella lite, erano terminati i nostri venerdì al pub, fatti di accese discussioni e diatribe sulle strategie di trading, di racconti camerateschi sulle nostre conquiste e di pettegolezzi sugli amici comuni. Pessima idea da parte mia non rinunciare al viaggio. Ma ormai ero lì.
Restammo a chiacchierare ancora un po’ prima di dirigerci in un pessimo ristorante nel porto. Seguì un’inutile passeggiatina sul molo. Tornammo in albergo piuttosto presto: la mattina successiva avremmo salpato. Avevo trascorso una notte insonne, fantasticando su un possibile ritorno di Gabriele, paventando l’idea che non sarebbe tornato mai più e cercando di prefigurarmi cosa sarebbe successo quando avrei accettato l’idea di averlo perso.
Quando la sveglia aveva suonato, io stavo supina nel letto, con gli occhi sbarrati. Quando, poco dopo, mi ero chiusa la porta della camera alle spalle, però, mi sembrava di avere meno paura del solito.