Viaggi a due nell’Europa di questi anni di Marina Torossi Tevini
lettura di Roberta Marsi
“Ogni viaggio è in un certo senso un percorso dell’anima. Obbliga a mettere in discussione ciò che davamo per scontato. In ogni luogo dove arriviamo – e già ce l’eravamo prefigurato presuntuosamente – troviamo sempre una realtà diversa che ci sorprende” scrive Marina Torossi Tevini, scrittrice italiana di origine triestina, nel suo “Viaggio a due nell’Europa di questi anni”– edito dalla casa editrice Campanotto.
Il libro prende spunto da alcuni viaggi fatti dall’autrice con il suo consorte in giro per il continente europeo ma l’autrice non si limita a redigere dei diari di viaggio e la descrizione dei luoghi visitati per qualche aspetto assume un’importanza secondaria. “Una fotografia dell’Europa di questi anni attraverso i viaggi di una coppia che ne coglie le dinamiche delle trasformazioni con un occhio ai paradossi della globalizzazione e una speciale attenzione per la sua identità storica,” così si legge sulla retrocopertina di questo libro e, come i grandi viaggiatori che nel Settecento e nell’Ottocento hanno percorso diversi paesi dell’Europa, anche Marina Torossi Tevini coglie aspetti e problemi delle varie realtà con cui viene a contatto. Le sue testimonianze, riflessioni, citazioni culturali ed economiche sono accurate e precise e in molti casi fonte di preziose informazioni. Il bisogno di comprendere nuove realtà – o anche realtà riviste a distanza di anni e perciò cambiate, – di fotografare vari aspetti di mondi diversi dal nostro richiedono alla scrittrice un’attenzione viva e critica. Il viaggio sollecita curiosità, interessi, voglia di confronto. La mente si protende per capire, comporre un quadro delle cose, approfondire analogie e differenze, cogliere identità e radici storiche. L’autrice ci offre con i suoi resoconti scorci interessanti dell’Europa dei nostri giorni, dai paesaggi della Liguria alla Grecia nelle diverse stagioni, dai panorami della Provenza, – che sono entrati a far parte anche di altri libri dell’autrice, – all’Olanda o alla Turchia. La Provenza con il suo mistral e i suoi borghi arroccati sulle colline è anche occasione per digressioni sull’inconscio come quella che segue: “Guardo mio marito che guida e continuo a pensare: mio caro, tu che ti ritieni così razionale (e quale uomo non ritiene di esserlo?) solo perché comunemente riesci a zittire il tuo inconscio… credi di controllarlo, di avergli messo la museruola… vedrai che zampata ti può dare, se vuole, all’improvviso… è sempre bene stare in guardia… trattarlo con prudenza… fa i capricci come un bambino… è un bambino… Ma bisogna lasciargli spazio, non si può presumere di ignorarlo… Bisogna venire a patti (non servono le sberle). Dentro c’è la nostra ferocia, la nostra sconsideratezza, il nostro cupio dissolvi, dentro ci sono paure e incoscienza. Dentro ci sono oscure piante e intricati sentieri. Ogni tanto va disboscato… Ogni tanto vanno percorsi questi sentieri… Chi non lo fa, si porta dentro un’ignota foresta tropicale che da un momento all’altro può esplodere in un uragano di infernali farfalle e di belve inferocite. I think, almeno”. Oppure sul turismo di massa in contrapposizione con l’elegante turismo d’élite d’inizio Novecento. “Nizza con i suoi viali pieni di palme e di alberghi inizio secolo è una città che, come Montecarlo o Monaco, racconta fasti d’altri tempi, ed evoca un turismo d’élite che ora non ha più senso. (Orde di turisti sciamano dappertutto, hanno imposto le loro esigenze di fast food e di shopping che rendono per qualche aspetto simili tutte le città d’Europa). Città di contrasti, come possiamo apprezzare, Nizza: panfili plurimiliardari e gente di colore, alberghi iperlussuosi e mendicanti a terra, bande giovanili e giovani molto belli, signore eleganti sedute sul lungomare con un libro in mano e vecchie con troppe collane”. E’ poi la volta di borghi cari a pittori come Van Gogh, Vence e S. Paul, che suscitano forti sensazioni e fanno sorgere domande sull’essenza dell’arte della creatività e sul riconoscimento nel mondo postmoderno del lavoro artistico. Ma se in alcuni capitoli il lettore viene sedotto da profumi colori e gusti, in altri si trova di fronte a tragici aspetti della realtà: in “Cattedrali di vetro e mulini” compare la deriva tragica dell’Occidente e “quel gigantesco suicidio dell’Europa che fu il Novecento” a cui Marina Torossi Tevini dedica un’interessante analisi sulle orme di scrittori e studiosi, in special modo Claudio Magris. Il periodo nazista, gli orrori di quello che l’uomo è riuscito a fare a sé stesso, il processo di Norimberga, prendono vita nelle pagine del libro mentre l’autrice attraversa la Germania, un paese ancora oggi devastato dal suo passato. Un paese in grande trasformazione, anche e soprattutto nella parte dell’ex DDR, simbolo con le sue luci e le sue ombre del comunismo prima della caduta del muro. L’attenzione è rivolta alla storia, ma anche ad aspetti della quotidianità come nel seguente passo: “Iena ci accoglie con un gigantesco superstore. I grandi magazzini, gigantesche città di negozi contenute in edifici trasparenti, e le torri di vetro altissime, come quella che svetta al centro di Iena, sono per così dire il simbolo dell’ex DDR, l’inserimento del dio consumo in una struttura economicamente ancora precaria. Sono le moderne cattedrali di vetro. Camminiamo e osserviamo i moltissimi edifici che appartenevano al passato regime, abbandonati e talvolta recintati. Nei negozi sono esposte cartoline con i vecchi permessi d’entrata o raffiguranti le Trabant, le automobiline d’antan della DDR. Quanto a parco vetture adesso le periferie delle città sono traboccanti di concessionari. Fiammanti automobili hanno rapidamente sostituito il vecchio parco macchine. Anche il sistema di mezzi pubblici è efficiente. Bei tram multicolori ci sferragliano vicino. Osserviamo che i Tedeschi hanno riservato al trasporto e alle infrastrutture molta attenzione. Le vecchie autostrade in cemento sono state quasi del tutto sostituite. Questo rende il viaggio più piacevole e comodo. Nella città di Weimar Goethe è onnipresente. Lo vediamo rappresentato in varie statue e fogge. Vediamo i giardini che lui stesso fece sistemare per la corte. Nell’insieme Goethe, oltre ad amare varie Marianne (e anche alcune Charlotte) e a passare il tempo sbevazzando nelle bellissime Keller di Lipsia, fu davvero un grandissimo lavoratore. Ma i suoi lavori non avevano la maniacalità e la monocordia delle nostre attività quotidiane. C’era il tempo per gloria, per gli amori, per le taverne. C’era il tempo per il trascendente e per la contemplazione della bellezza, per la ricerca di assoluti, per le domande metafisiche che fanno il volto più bello e gli occhi più luminosi. Certo non era per tutti (e in questo senso abbiamo pur fatto dei passi avanti). D’altronde non sarebbe stato neppure da tutti”. Il viaggio si integra con un’appassionata esplorazione della cultura, della storia, del pensiero e dell’arte di un Europa in costante trasformazione. Passato e presente si intrecciano. Punto di partenza per tracciare l’identikit dei paesi visitati è la loro identità storica, che permette di mettere in luce gli aspetti peculiari che costituiscono il dna di un paese, e ad esso sono indissolubilmente connessi. La narrazione passa in rassegna Francia, Germania, Grecia, Austria, alcuni paesi dell’Europa nord occidentale, alcune regioni italiane e così via, cogliendo gli aspetti salienti di ogni paese e popolo. La figura di Van Gogh, ritorna con tutto il suo fascino, la sua potenza e le sue contraddizioni in Olanda, mentre i due viaggiatori gironzolano tra i canali di Amsterdam e ne visitano i dintorni. Impressioni e sensazioni si mischiano con l’odore del mare del Nord, inaspettatamente freddo e inospitale, e con i dettagli dell’itinerario percorso in questo paese, dove tutto sembra diverso da come in effetti è. Il percorso interiore dentro i meandri della mente dell’uomo ed esteriore, tra città, piazze e luoghi del mondo, prosegue, passando per l’Italia, dove fa’ capolino la quotidianità, caratterizzata da fretta, stress, illusione che tutto giri intorno a noi. E ancora insicurezza, insoddisfazione uniti alla paura di non sapere chi siamo né ciò che vogliamo. L’autrice ci fa approdare in Sicilia, terra di profumi, culla italiana della civiltà greca. “Agrigento non è una bella città. Deturpata da un’edilizia dissennata. Ci avviamo per le viuzze della parte araba che si arrampicano lungo la collina in direzione del Duomo. A dir la verità in quei vicoletti ci ritroviamo per caso.(E vorremmo uscirne al più presto). Ma non c’è una via di fuga. Bisogna salire gradini e gradoni. Case fantasma. Diroccate. Stradine fatiscenti. Poi, all’improvviso, qualche patio, qualche casa che vive, qualche bel giardino chiuso tra mura, protetto dalla vista di tutti. Minuscole oasi per l’estate, da godere tranquilli tra zampilli d’acqua, fuori dal mondo. “Come si fa a vivere qui?” chiede mio marito. Ma io, che sento in quel momento il profumo di quel minuscolo paradiso, penso che certo si può”. Tra fragranze floreali, sole e mare, affiorano alla mente dell’autrice ricordi letterari come le pagine dedicate a Pirandello. “Pirandello è uno degli autori che segnano il Novecento. Nasce con lui la consapevolezza di quella che potremmo definire la tragedia della parola. “Ma se è qui tutto il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, si¬gnore, se nelle parole che io dico metto il senso ed il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, nel mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!” Non è più la parola “alata”, la parola che passa da una bocca all’altra, messaggera imprecisa, ma pur sempre attendibile, messaggera parziale, ma pur importante, perché capace di veicolare contenuti significativi e farsi portavoce dei sentimenti e dalla razionalità umana. L’uomo nel primo Novecento, attraverso la sensibilità di scrittori capaci di anticipare quelle che sarebbero state le linee guida di un’epoca, abbandona la percezione di sé che aveva nel passato, la psicanalisi attinge i più oscuri strati del suo essere, la filosofia lo concepisce come una monade magmatica a cui la realtà nella sua essenza sfugge. L’arte esprime l’alienazione l’impotenza la solitudine, che le parole o i gesti degli altri non possono infrangere in modo significativo. Questo senso di tragica solitudine e di rassegnata consapevolezza nei confronti di un destino di incomunicabilità assoluta percorre tutto il Novecento. La parola si frantuma, si sfaccetta, si presenta in una realtà poliedrica e variegata che non lascia sicurezze, non concede facili approdi; non veicola più miti condivisi, perde ogni sacralità, non è il luogo deputato per la ricerca della verità, come nella solidale sapienza antica che si costruiva sull’oralità, tra un maestro e i suoi discepoli che, attraverso la parola, ponevano come fine comune l’approdo a una nuova verità”.
Ma l’impegno intellettuale cede il posto anche al racconto più lieve, come in alcuni dei capitoli dedicati all’Istria. Nel passo che segue siamo nel campeggio di Coversada, vicino a Parenzo. “Credo che pochi luoghi siano così poco erotici come un campeggio naturista. Il genere umano in buona percentuale non è molto gradevole da osservare. Qui dominano i tedeschi: cosce ipercellulitiche, gigantesche tette con capezzoli mostruosi e rotondità ventrali flaccide in maschietti e femminucce. Siamo a Coversada, uno dei più grandi campeggi naturisti d’Europa, proprio all’imbocco di un grande fiordo, il canal di Leme, che taglia a metà l’Istria. Il posto è bellissimo. Alla sera la luna riflessa sul mare tra scogli e isolette illude di essere in un quasicaraibi dietro l’angolo”. Ma in questi stessi capitoli, alternati a passi di carattere più personale e intimistico, ci sono altri attenti alla dimensione storica e sociale, con citazioni da autori come la Mori o Rumiz: “L’Istria, “terra di mezzo”, come la definisce Fulvio Tomizza, la bella penisola che fa pensare a un chicco d’uva sospeso tra due golfi, quello di Trieste e il Quarnero, un triangolo di mondo terraqueo. “Gli istriani hanno bisogno di parole che raccontino, – scrive Anna Maria Mori – che dicano la verità, che ricostruiscano non solo la loro storia, ma la storia intera della loro terra, l’Istria, così bella che piacque a molti, ai Greci, agli antichi Romani che vi costruirono ville sontuose, ai Turchi, ai Bizantini, agli imperatori austroungarici, alla repubblica di Venezia e purtroppo piacque anche al fascismo e poi al comunismo del maresciallo Tito ed è piaciuta, e piace, alla Slovenia e alla Croazia”, piacque e piace ma, come succede talvolta alle donne, non per amore: “quel triangolino di terra è talmente bello e speciale che ha spesso indotto alla violenza” ed è divenuto nella storia terra di conquista, di domini e di predomini. Troppi dominanti e troppi dominati, troppa grandezza e troppa povertà, troppe razze e lingue e culture diverse tra loro”. Luogo di confine e di sofferenza dunque, perché basta un volgere di destini e l’individuo si ritrova travolto, e i paletti e i limiti e luoghi amati gli sono strappati senza pietà. Nulla ci appartiene in fondo. Ma l’uomo ha le sue radici ed è difficile quando siamo toccati da uno stravolgimento del destino fare nostre le parole degli antichi filosofi. Intanto ce ne stiamo tranquilli, in mezzo a tedeschi sbracati e a triestini habitué del luogo, in un paese che solo pochi anni fa è stato sconvolto dalla guerra. (L’orrore ci è passato vicino e non ce ne siamo neanche accorti). “Nel momento stesso che ti senti estraneo ai Balcani e li liquidi come qualcosa di estraneo all’Europa essi sono già entrati in te”. È con passione paragonabile a quella di antichi storici classici che Paolo Rumiz denuncia i giochi di potere e l’abilità di alcuni leader nel creare artificialmente un’opinione diffusa nel popolo utilizzando a questo scopo i mezzi di comunicazione. E nel suo Maschere per un massacro scrive: “I malvagi, e ce ne furono moltissimi, furono gli orchestratori, i registi della guerra, quelli che la crearono, e furono accolti con favore dall’opinione pubblica internazionale, furono gli interlocutori preferenziali, su di loro si puntarono le telecamere della BBC. Loro volevano raccontare fandonie, ma il mondo voleva sentirsele raccontare”.
La guerra dei Balcani rivelò un tessuto sociale disgregato, permeabile a qualsiasi veleno, ma denunciò anche mali generalizzati a tutto l’Occidente. Siamo sempre più esposti a irrazionalità e debolezze. E questo si assomma a quello che potremmo definire l’humus naturale su cui germoglia la storia. Manzoni diceva nell’Adelchi: “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto: la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà”.
Questi sono solo alcuni brevi flash di quanto è contenuto nel libro della Tevini che descrive tra luci e ombre un’Europa che cambia. Un libro sicuramente impegnativo, ma al tempo stesso piacevole, ironico e ricco di suggestione.