Sono alla stazione della metropolitana Tajrish, nella parte settentrionale di Teheran. Devo cambiare dei rial dell’Oman in rial dell’Iran, e per farlo devo andare a Ferdowsi; potrei prendere un comodo taxi e scendere nella zona degli exchange. Oppure posso prendere la linea rossa e scendere dopo tredici fermate, e poi prendere la gialla per Ferdowsi. Opto per il metrò: mi piace mescolarmi alla gente, osservare, guardare oltre il velo, le separazioni e i pregiudizi.
Perché io amo le persone, gli scambi e la vita.
Io e Maryam l’altra sera a cena
E così eccomi qui, le mani in tasca per il freddo, l’hijab a coprirmi i capelli, due paia di calze sotto le Converse All Star, la maglia fin sulle coscie. Percorro Niavaran Street, scanso donne in chador fino ai piedi, uomini dallo sguardo gentile, macchine impazzite nel traffico del mattino di Teheran.
Camminando a Tajrish, Teheran nord, stamattina
Lo smog mi prende alla gola mentre avanzo a passo leggero tra i venditori di frutta, di sciarpe e cappelli, poi mi infilo nella stazione della metropolitana.
Non ci sono stranieri, per strada. E nemmeno sulla metropolitana. Ci sono solo io in mezzo alla vita iraniana che va avanti nonostante le sanzioni e le turbolenze.
Tutto scorre normale.
Fuori, due militari in tuta mimetica armati fino ai denti ne controllano l’ingresso; mi guardano mentre scivolo giù per le scale mobili, giù per tre piani, giù nelle viscere di questa strana e pazza città.
Amo l’Iran. L’ho amato fin dalla prima volta che vi misi piede, nel dicembre del 2012.
Lo amo perché è uguale a me: segreto ma aperto, triste ma allegro, antico ma moderno.
L’Iran sono io.
Il popolo iraniano è gentile quanto quello nepalese, se non di più, e la sua gentilezza trova sempre una scusa per uscire allo scoperto: mi perdo, e trovo qualcuno che mi indica la via; non so farmi capire, e trovo sempre qualcuno che traduce per me; sono sola, e trovo un amico.
L’Iran è così: chiuso ma aperto, un cuore che batte sotto i chador e i capelli scuri.Decido di salire sullo scompartimento per sole donne, “WOMEN ONLY”, quello al fondo del treno. E’ pieno ma trovo un posto a sedere tra una ragazza con un foulard verde che le copre a malapena lo chignon, e una donna col chador nero lungo fino ai piedi.
Tradizione e modernità. Religione e compromesso. Questo è l’Iran di oggi.
A ogni fermata sale una venditrice solitaria: chi vende smalti, chi ombretti, chi mascara; una donna tira fuori foulard neri da un sacco di plastica azzurro; un’altra, braccialetti e collane, mentre la figlia con la coda di cavallo si nasconde dietro all’ultimo sedile; un’altra ancora vende calze da donna e da uomo, mente il figlio porta sulla schiena uno zaino pesante con aria annoiata.
La donna vicino a me mi dice in un bell’inglese che sono ragazze e donne povere, e ogni tanto compra qualcosa. E’ una scusa per attaccare bottone, mi accade su ogni mezzo che prendo: mi dicono qualcosa, e poi mi chiedono da dove vengo. “Italy!”. E si girano tutte.
Nel giro di due minuti ho almeno tre ragazze e un paio di donne intorno, ognuna a sentire la mia storia, perché sono in Iran, “Do you like Iran?” “Quando vai a casa, dillo che non siamo quello che vogliono fare vedere!”.
Scambi di opinioni, abbozzi di sorrisi da sotto i chador, poi la signora accanto a me mi chiede: “Sei sposata?”. “No”. “Allora ti auguro di trovare un bell’uomo iraniano, serio bello e che starete insieme per sempre!”.
Le chiedo cosa sia quell’aggeggio che ha attaccato al dito, mi risponde che è una macchinetta per contare le preghiere, un rosario musulmano elettronico.
“Posso fargli una foto?”
“Certo!”
Eccolo:
Conto almeno tre ragazze con un cerotto sul naso: è la moda iraniana di rifarsi il naso alla francese, di rifarsi tutte: bocche, zigomi, sopracciglia, seni. Il mio amico Ali mi ha detto: “La mia ex ragazza era tutta di plastica: tutta rifatta.”
Poi devo scendere alla mia fermata, ci salutiamo, una ragazza mi tocca il braccio: “Welcome to my country!”.
E il treno riparte, coi suoi sorrisi, le speranze, la sofferenza e la gioia della vita delle donne. Proprio come la mia.
Ora devo prendere la linea gialla, e decido di salire sullo scompartimento misto, uomini e donne. Un separé divide l’area mista da quella femminile: donne in chador mi guardano dall’altra parte del vetro, mi seggo e alzo gli occhi.
Siamo solo due donne tra i ragazzi, alcuni belli come modelli di Dolce e Gabbana, la barba folta all’ultima moda, i capelli in alto e le spalle larghe, e gli uomini dai capelli folti e scuri.
Non c’è mai odore, sul metrò: gli iraniani hanno profumi leggeri, mai nauseanti, mai invadenti.
Anche qui, i venditori, stavolta ragazzi, salgono a ogni fermata per vendere sciarpe e chewing-gum marca Extra. Anzi no, non c’è scritto Extra: c’è scritto Extar. Come gli abiti contraffatti di fattura cinese, il nome è storpiato a camuffare il falso.
Il ragazzo seduto davanti a me, un uomo bellissimo con mani grandi e un anello enorme con una pietra blu, mi fissa con occhi scurissimi come il cielo del deserto. Un po’ mi sento in imbarazzo mentre scendo dal treno; la folla mi spinge e non mi fa passare.
Mi faccio largo. La porta si chiude. Il ragazzo si volta. Mi sorride. Gli sorrido.
Il treno riparte. Lui mi guarda. Io lo guardo. Viene inghiottito dal tunnel, e io salgo su per le scale mobili e scappo via.
Una frase mi risuona nelle orecchie:
“Dillo, che non siamo quello che vogliono fare vedere”.
Sì, lo dico: l’Iran non è ciò che vogliono far vedere i mass-media. L’Iran è vita che pulsa, è persone gentili, cultura e apertura.
Fuori della stazione, un mullah in turbante bianco e tunica marrone mi passa accanto con sguardo serio mentre scatto una foto. Due militari col kalashnikov mi fanno passare.
Lo smog mi riprende alla gola. Ma forse sono i segreti, i segreti che non si possono dire, che restano fermi lì, a vivere di vita propria finché uno spiraglio di luce li porterà fuori.
Fuori dal tunnel.
All’interno della stazione della metropolitana Tajrish